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Sport, ma perché è così poco sportivo?

Sport e controllo popolare è il tema del secondo numero di Zona Letteraria. Ecco la presentazione del direttore

di Giuseppe Ciarallo

 

Se fino a qualche lustro fa la frase attribuita al barone Pierre de Coubertin “L’importante non è vincere ma partecipare”, anche se un po’ sbiadita ancora resisteva, oggi, con l’imporsi di uno sport sempre più legato a meccanismi economico-finanziari e di spettacolarizzazione, quel motto appare quasi patetico se non addirittura falso. Perché nell’epoca del professionismo esasperato l’importante non è affatto partecipare, ma vincere, anzi stravincere, di più, trionfare. E a proposito di professionismo, almeno in Italia, incontriamo una delle tante discriminazioni che purtroppo non riguardano solo l’ambito sportivo: quella nei confronti delle donne. Le atlete italiane, anche quelle che gareggiano ai più alti livelli, sono costrette a competere in qualità di dilettanti, in quanto nessuna federazione permette loro di accedere all’attività agonistica da professioniste. Pur spendendo lo stesso tempo dei loro colleghi maschi in palestra, lo stesso impegno sulle piste o sui campi di gioco, le atlete vengono riconosciute unicamente come dilettanti, con quel che ne consegue (contratti che non prevedono uno stipendio ma solo rimborsi spese, assicurazioni – quando presenti – ben diverse da quelle stipulate dagli atleti professionisti, ecc.).

Nel panorama dello sport moderno, nazionale e non solo, a spadroneggiare sono i famigerati diritti televisivi, i contratti pubblicitari, gli sponsor, nuovi idoli cui tutto sacrificare e che tutto condizionano, solida base di una vera e propria dittatura mediatica. Una dittatura che ha il completo controllo sulle politiche e sulla programmazione delle società sportive, e sulla vita stessa degli atleti, trasformati in automi programmati per l’unico fine della vittoria. Un potere tirannico che in nome dello show permanente (che comunque e a dispetto di tutto “must go on”) fomenta nello sportivo l’egoismo e l’egotismo più sfrenati, ed esaspera gli animi delle tifoserie, fatte da persone già orfane di fari ideologici e che hanno riposto fideisticamente nell’amore per la loro squadra del cuore una valida ragione per cui battersi (e non di rado, anche morire).

A ciò si aggiunga il deleterio mix sport & politica (o ragion di Stato), che in più di un’occasione ha causato disgrazie e lutti, e che può diventare esplosivo in determinati momenti storici – come quello attuale – nei quali i nazionalismi riprendono fiato e si alimentano come illusorio scudo per far fronte a una crisi (economica, ma anche sociale e di valori) dalla quale non sembra esserci via d’uscita. George Orwell sosteneva che “lo sport è una guerra senza gli spari”, ma il grande scrittore de La fattoria degli animali, pur nella sua grande capacità visionaria, ampiamente dimostrata nel profetico 1984, non poteva immaginare quanto il binomio sport e nazionalismo xenofobo avrebbe scatenato da lì a qualche decennio.

Disgrazie e lutti, dicevo. Nel 1969 tra Honduras e El Salvador scoppiò la cosiddetta “guerra del pallone” che durò cinque giorni; conflitto militare tra i due Stati, scoppiato a seguito di scontri tra opposte tifoserie, che causò seimila morti e il ferimento di dodicimila persone. Per non parlare della partita di calcio tra i croati della Dinamo Zagabria e i serbi della Stella Rossa di Belgrado, vero e proprio detonatore per la disastrosa e disumana guerra civile che di lì a poco avrebbe preso il via. Tanti altri potrebbero essere gli episodi da citare, ma l’evento più grave in assoluto riguarda l’attacco palestinese al quartier generale della squadra olimpica israeliana, durante i Giochi di Monaco ’72. Bilancio finale: 16 vittime (nove israeliani, cinque palestinesi, un ufficiale di polizia e un pilota di elicottero tedeschi).

Fortunatamente, esiste una concezione diversa dell’attività sportiva, espressa dalle tante associazioni e società che vedono nello sport un efficace mezzo di inclusione e riscatto sociale. Associazioni che pongono in primo piano i valori della solidarietà, dell’onestà, del rispetto dell’individuo, spesso uniti a quelli dell’antirazzismo e anche dell’antifascismo. Associazioni che si occupano di sport e disabilità, sport e integrazione, di lotta alla discriminazione, al disagio sociale, all’omofobia, alla xenofobia. A dimostrazione che l’attività sportiva non è fatta unicamente di estenuanti sedute di allenamento, di rigida disciplina ed esasperata competitività, ma di pratiche che aiutino l’individuo – senza differenza di condizione alcuna – a comprendere l’importanza del confronto con se stesso ancor prima che con l’altro, a capire l’importanza della cooperazione, nella gara come nella vita.

Parafrasando il celebre motto decoubertiniano, dunque, possiamo dire che l’importante non è limitarsi a partecipare, ma vincere. Vincere lo svantaggio sociale, il concetto stesso di esclusione, il razzismo, la discriminazione, l’idea malsana e falsa che non possa esistere lo sport senza una spietata competizione.

In questo nuovo appuntamento Zona Letteraria vi parlerà di tutto questo, di sport e società, di sport e politica, e di come lo sport possa diventare il termometro attraverso il quale misurare la febbre che attraversa la vita di una comunità in un determinato momento storico. All’interno di questo numero incontrerete alcune discipline (si parla di calcio, basket, alpinismo, atletica leggera, tennis, rugby, ciclismo e persino del quidditch, che nasce traendo spunto dalle leggendarie sfide narrate nella saga di Harry Potter) e diversi modi di leggere – e di scrivere, visto che il nostro principale strumento di indagine è la letteratura – le vicende e le esperienze sportive del passato e di questo nostro burrascoso e confuso presente. Una nota particolare va riservata alla parte iconografica della rivista, sequenza di scatti che non vuole accompagnare in maniera didascalica i testi, ma rappresenta un vero e proprio racconto a sé stante, un racconto che mostra il lato bello e umano dello sport, così distante dal mondo freddo e robotico della competizione fine a sé stessa.

Alla realizzazione di questo numero hanno partecipato i fotografi Luca Gavagna, Stefano Calanchi, Adriano Boscato, e gli autori dei testi Silvia Albertazzi, Cristina Muccioli, Sonia Trovato, Paolo Vachino, Massimo Vaggi, Emiliano Poddi, Riccardo Burgazzi, Agostino Giordano, Nader Ghazvinizadeh, Daniele Comberiati, Luigi Franchi, David Ginsborg, Gianfranco Manfredi, Vittorio Ferorelli, Alberto Sebastiani, Marco Pastonesi, Matthias Canapini, Giuseppe Ciarallo, Luca Cristiano, Rudi Ghedini e Sergio Rotino.

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