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No Tav, non è punibile la reazione agli abusi in divisa

No Tav, assolti in quattro per avere reagito ad «atto arbitrario di un pubblico ufficiale». Le difese: «E’ la prima volta in tanti anni»

Ribellarsi è giusto! A volte. Il tribunale di Torino ha assolto quattro attivisti No Tav della Valle di Susa processati per un parapiglia con le forze dell’ordine e, come si ricava dal dispositivo, ha applicato anche la speciale causa di non punibilità prevista per chi reagisce a un «atto arbitrario di un pubblico ufficiale». L’episodio contestato risaliva al 2015 e si era verificato nei pressi del cantiere del Tav a Chiomonte.

I quattro, a seconda delle singole condotte, rispondevano di resistenza a pubblico ufficiale, oltraggio, lesioni, danneggiamento, inosservanza dei provvedimenti dell’autorità. La “non punibilità” è stata riconosciuta a uno di loro; per gli altri è arrivata l’assoluzione. Il 3 ottobre 2015 cinque europarlamentari si presentarono nei pressi del cantiere insieme a una cinquantina di attivisti NoTav della Valle di Susa. Le forze dell’ordine si posizionarono in modo da impedire alla comitiva di varcare un ponte su un corso d’acqua. Dopo una trattativa fu permesso il passaggio a uno dei parlamentari (accompagnato da un piccolo gruppo di No Tav). In seguito però si verificarono degli scontri. Le difese (avvocati Danilo Ghia, Lea Fattizzo e Valentina Colletta) hanno sostenuto, basandosi anche su dei filmati, che in alcune circostanze gli agenti hanno travalicato i limiti delle loro attribuzioni, scalciando e utilizzando gli scudi in dotazione in modo inappropriato. «E’ la prima volta in tanti anni – è il commento – che vediamo riconosciuta la causa di non punibilità per un atto arbitrario».

Succede a Torino, patria dell’archiviazione delle denunce sugli abusi in divisa. Infatti, dalle prime 21 querele del dicembre 2005, per le violenze durante lo sgombero notturno di un presidio No tav a Venaus, c’è una serie ininterrotta di archiviazioni quasi sempre per l’impossibilità di identificare gli autori delle condotte delittuose. In quel caso il gip disse, tuttavia, che erano «frequenti ed estesi», gli episodi di violenza da parte di operatori in ordine pubblico e «almeno in parte false» le versioni dei 18 funzionari che furono sentiti. Perché non ci fu alcun procedimento? Perché nessun giudice s’è ricordato che anche chi assiste a reati di colleghi dovrebbe intervenire o, almeno, denunciare? Non esiste una responsabilità per chi comanda le operazioni? Perché nessuna inchiesta è stata aperta anche quando la gravità delle lesioni avrebbe richiesto l’apertura d’ufficio? Domande inevase allora e in tutti gli altri casi di abusi, violenze contro donne e uomini di ogni età, danneggiamenti gravi, uso di armi improprie e uso improprio di armi legittime, ingiurie sessiste e torture sugli arrestati. Decine e decine di archiviazioni e, in parallelo, processi rapidissimi e condanne pesanti contro i manifestanti. Il dubbio è che alla Procura di Torino importi di più colpire piccoli reati simbolici, come il taglio delle reti del cantiere, piuttosto che reati per lesioni gravissime e violazioni dell’articolo 3 della Convenzione di Strasburgo.

L’unica divisa indagata in Valle è quella di un Cacciatore di Sardegna, reparto di carabinieri che fa la spola con i teatri di guerra. Il 3 luglio 2011, a Venaus, il militare pestò un ragazzo arrestato mentre era sotto il controllo totale dei pubblici ufficiali. Un reato molto grave secondo quanto scrive la Corte europea di giustizia nella sentenza su Bolzaneto. Fu indagato ma se la cavò con la messa alla prova, una misura che estingue la pena, e 1500 euro di risarcimento al manifestante. Tuttavia il legale del manifestante venne denunciato per una memoria difensiva considerata irriguardosa nei confronti della corte ma che fu archiviata, alla fine. Il legale si chiama Claudio Novaro, insieme alla collega Valentina Colletta – anche lei si occupa di casi di conflitto sociale – ha curato “Archiviato” (2016), documentario che denuncia come gli illeciti commessi da agenti e funzionari di pubblica sicurezza ai danni di manifestanti o fermati, non determinino, specialmente a Torino, i medesimi esiti giudiziari di quelli commessi dai manifestanti. Quel film è in rete dopo aver circolato nei luoghi di movimento. Mai stato possibile presentarlo in un tribunale, o in luoghi istituzionali, nemmeno alla Biennale Democrazia (manifestazione promossa dalla Città di Torino e realizzata dalla Fondazione per la Cultura Torino). «Riuscimmo a proiettarlo in Senato, grazie all’impegno di Luigi Manconi, all’epoca presidente della commissione sui diritti umani, suscitando lo sdegno dei sindacati di polizia – ricorda Colletta – avremmo voluto interloquire ma loro hanno chiesto il divieto di proiezione». Il Coisp bollò la cosa come «cineforum di propaganda diffamatoria contro le Forze dell’Ordine» e sui loro «presunti reati» da parte del «partito dell’antipolizia». Esiste quel partito? O piuttosto non esiste un partito della polizia? “Il partito della polizia” (Chiarelettere 2014) è il titolo di un’inchiesta del giornalista genovese di Repubblica, Marco Preve, che apre proprio con un segnale di impunità: «“Speriamo che muoiano tutti. Tanto uno già…1-0 per noi”. La polizia dei De Gennaro, Manganelli, Gratteri e Caldarozzi non ha mai ritenuto di dover scoprire, per punirla, il nome della poliziotta del 113 che così si espresse dopo la morte di Carlo Giuliani, luglio 2001.

Intanto a Milano, si legge sul sito del movimento No Tav, si susseguono a ritmo serrato le udienze sulla cosiddetta cricca dei favori della procura di Torino. Al centro dell’inchiesta c’è una vecchia conoscenza del movimento notav, il PM Andrea Padalino, procuratore del pool anti-notav incaricato per anni, assieme al collega Rinaudo, della repressione del dissenso in Val di Susa.

Avevamo già riferito quanto emergeva dalle carte processuali quiqui e qui. Sono fatti che, d’altronde, il movimento notav ha denunciato per anni nel silenzio generale delle istituzioni: assegnazione pilotata dei casi secondo criteri politici, gestione opaca dei dossier, collusione tra organi giudiziari e di polizia. Lo schema era consolidato. Il PM Padalino faceva in modo di essere assegnatario di alcuni fascicoli che gli venivano segnalati dall’appuntato dei carabinieri Renato De Matteis in modo che questi potesse far prendere alle indagini una corsia preferenziale. In cambio arrivavano cene di lusso, vini e altri favori. Durante le udienze veniva poi sistematicamente nominato come difensore l’avvocato Pierfranco Bertolino, il terzo uomo della cricca nonché altra vecchia conoscenza del movimento notav. È lui che, in tutti questi anni, ha difeso poliziotti e sindacati di polizia come parte civile nel processi contro gli attivisti valsusini. A quanto emerge a volte, come nel caso di Pentinicchio, finanziere di Novara condannato a 5 anni e 6 mesi per sfruttamento della prostituzione, sembra che Padalino incontrasse direttamente gli imputati e preparasse la difesa in tandem con l’avv. Bertolino.

Da ieri (13 maggio, ndr) sono emersi ulteriori e se possibile ancor più inquietanti dettagli. Un uomo della scorta di Padalino, Davide Barbato, era incaricato di tenere i contatti tra il PM e l’imprenditore Giulio Muttoni. Padalino chiedeva a Muttoni di ricambiare non meglio precisati favori con biglietti per sé e per la propria consorte per vari concerti, come quello di Ligabue a Torino. Gli ingressi venivano offerti attraverso la società Set Up Live, numero 1 della vendita di biglietti per eventi e concerti nel capoluogo piemontese, riconducibile a Muttoni. La società, oggi chiusa, è stata interdetta per mafia il 29 agosto 2015. Sembra che tra i beneficiari degli ingressi omaggio non ci fosse solo Padalino ma anche alcuni affiliati alla ndrangheta coinvolti nell’inchiesta San Michele… l’inchiesta che ha certificato che la ‘ndrina di San Mauro Marchesato ha svolto importanti lavori nel cantiere per il tunnel geognostico del TAV in Val Susa.

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