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Le zone rosse servono, ma non sempre

L’efficacia delle misure di fronte alla diffusione del virus le zone rosse. Intervista a Baltazar Espinoza, autore di un articolo finanziato dalla NSA

Nel secondo episodio del loro “Diario virale”, pubblicato nell’ormai lontano, lontanissimo 28 marzo, il collettivo bolognese Wu Ming sul suo blog “Giap” passava al vaglio della critica la reazione scomposta e disordinata delle istituzioni bolognesi di fronte al pericolo di diffusione del Covid-19.

Tra i tanti spunti anche il riferimento a uno studio epidemiologico americano, intitolato “Mobility restrictions for the control of epidemics: When do they work?”. L’articolo veniva citato per sottolineare tutti i dubbi del colletivo sulla “procedura controversa, quella del lockdown, anche sotto l’aspetto strettamente sanitario.”, perché il lavoro “studiava l’effetto di una quarantena su due territori contigui, uno con servizi medico-sanitari migliori e quindi a minor rischio di epidemia (chiamiamolo «ricco») e uno con servizi medico-sanitari peggiori e quindi a maggior rischio di epidemia (chiamiamolo «povero»).”

Nella loro conclusione gli scienziati spiegavano che la restrizione di movimento tra le due comunità così individuate avrebbe avuto – secondo il modello matematico adottato – come conseguenza un aumento dei contagi in quella con minori risorse (sanitarie, economiche, ecc.): “più bassa sarà la mobilità relativa delle persone della comunità ad alto rischio – riassumevano i Wu Ming – più vasta sarà la dimensione complessiva dell’epidemia.” 

Un punto di vista interessante, sicuramente da approfondire. Ho dunque contattato l’autore principale dello studio, Baltazar Espinoza, ricercatore presso il Simon A. Levin Mathematical, Computational and Modeling Sciences Center presso l’Arizona State University (ASU). Ha gentilmente accettato di rispondere a qualche domanda. Baltazar ha un dottorato in Matematica applicata per le scienze sociali e della vita presso l’ASU. La sua è dunque una prospettiva epidemiologica.

Dottor Espinoza, la sua ricerca sulle restrizioni alla mobilità delle persone durante le epidemie è stata in parte finanziata dalla NSA [la National Security Agency, organismo del Dipartimento della difesa degli Stati Uniti d’America che, insieme alla CIA e all’FBI, si occupa della sicurezza nazionale, NdA]. Come mai?

La sicurezza di una nazione può essere compromessa in molteplici modi, il potenziale uso di un agente biologico che ha un impatto sul sistema sanitario pubblico rappresenta una possibile minaccia alla nostra sicurezza nazionale. Comprendere le dinamiche coinvolte nella trasmissione e nella diffusione delle epidemie su scala internazionale e locale è fondamentale per la progettazione di politiche che aiutino nel controllo delle malattie infettive. Devo aggiungere che è mia convinzione che il CDC (Centers for Disease Control) sia stato creato in risposta al potenziale utilizzo di agenti biologici da parte di altre nazioni.

L’analisi dell’efficacia delle restrizioni alla mobilità nel caso di epidemie è un tema ricorrente del suo lavoro. In un’altra ricerca ha cercato di capire come le restrizioni di movimento applicate allo scoppio dell’epidemia di Ebola in Africa Occidentale abbiano agito. Quali sono le conclusioni di questo lavoro?

Nel mio lavoro “Assessing the Efficiency of Movement Restriction as a Control Strategy of Ebola”, ho analizzato un sistema composto da due comunità, in cui ogni regione presenta condizioni socio-economiche diverse – come il reddito, la ricchezza, le infrastrutture sanitarie pubbliche, ecc. –. Gli individui che passano il loro tempo nell’una e nell’altra presentano un rischio differenziale di contrarre un’infezione; il rischio è ritenuto proporzionale al tempo trascorso in ogni comunità.

Le analisi numeriche fatte su differenti scenari suggeriscono che nelle società in cui le differenze nel rischio di infezione specifico della comunità sono pronunciate (a causa della densità e della qualità della popolazione o dell’assenza di infrastrutture sanitarie), esistono condizioni in cui lo stabilire un “cordone sanitario” non è la migliore strategia di controllo se l’obiettivo è quello di ridurre al minimo il numero complessivo finale di individui infetti nel sistema e non solo in una comunità. In altre parole, permettendo alla popolazione di viaggiare è possibile ridurre il numero complessivo finale di individui infetti rispetto al livello prodotto nel cosiddetto scenario del cordone sanitario.

 

Nella sua ricerca intitolata “Mobility restrictions for the control of epidemics: When do they work?” lei cerca di capire in generale se le restrizioni al movimento sono efficaci nel controllo della diffusione delle epidemie. Lei costruisce un modello che vede a confronto due comunità, una a basso rischio diffusione e una a alto rischio e analizza gli scambi tra di esse. Quali sono i risultati ai quali è pervenuto?

Questo lavoro ha ampliato la nostra comprensione dello studio su Ebola appena descritto, nel senso che in esso non erano state esplorate le condizioni specifiche della comunità che portano alla riduzione dei casi rispetto a quelle associate allo scenario del cordone sanitario. In questo lavoro ho individuato alcune delle caratteristiche della comunità che non farebbero della realizzazione del cordone sanitario la migliore strategia. I criteri di valutazione utilizzati sono stati determinati dalla dimensione complessiva dell’epidemia finale. Abbiamo dunque scoperto che, a seconda del rischio di infezioni nelle due regioni, l’attuazione delle restrizioni di viaggio può essere, a seconda del rischio di infezione:

– Raccomandata, quando entrambe le regioni presentano un rischio di infezione simile.

– Condizionalmente raccomandata, a patto che entrambe le comunità siano fortemente connesse e che vi sia una regione “abbastanza sicura” che aiuti a ridurre il numero complessivo di casi.

– Sconsigliata, quando esiste una regione “altamente sicura” in cui l’epidemia verrebbe contenuta.

Il risultato al quale è arrivato sembra controintuitivo. Il suo è un modello matematico. Come si applica alla realtà?

L’uso del cordone sanitario ha una lunga storia. Esempi dell’uso dei cordoni sanitari sono le misure per fermare la peste bubbonica (1666), la febbre gialla (1793, 1821, 1882) e il colera (1830, 1884). Anche se non sono uno storico, posso dire che queste misure sono state messe in discussione dagli studiosi: come una recente ricerca mostra è il loro utilizzo che ha portato ad un aumento del numero di casi di Ebola [articoli 1 e 2 in bibliografia]. Ho studiato l’efficacia del cordone sanitario come misura di controllo da una prospettiva epidemiologica su un mondo idealizzato, utilizzando ampie simulazioni e alcune analisi matematiche. Questo attraverso un semplice modello matematico, una semplificazione della realtà, basato sulla presenza di due comunità in cui non erano specificamente inclusi l’economia, il comportamento umano adattivo, la diagnosi di malattia o altri aspetti critici del complesso problema reale. La loro inclusione era implicita nei rischi di infezione altamente distinti che corrono i membri di due comunità vicine (per esempio, baraccopoli e quartieri ricchi in Sudafrica o favelas e quartieri eleganti in Brasile, o aree infestate da bande e comunità ricche in El Salvador). Siamo riusciti a individuare le condizioni in cui le restrizioni alla mobilità possono non essere una politica efficace per controllare la diffusione di una malattia infettiva. Questi studi si basano sul lavoro di una comunità di epidemiologi computazionali ed esperti di salute pubblica con l’obiettivo di prendere decisioni informate sull’efficacia delle restrizioni alla mobilità fino ai cordoni sanitari.

Nella sua ricerca lei fa notare che gli studi epidemiologici sulla diffusione delle epidemie si sono concentrate sul tasso di diffusione (rate of spread) piuttosto che sulle dimensione complessive di diffusione dell’epidemia  (final epidemic size). Qual è il problema di questo approccio secondo lei?

Il problema di decidere quando, dove e come applicare le restrizioni di viaggio ha molte caratteristiche e dimensioni. Il criterio in base al quale si può giudicare l’efficacia di una politica di controllo della malattia varia a seconda dell’obiettivo perseguito e della malattia stessa. La velocità di trasmissione, il picco di prevalenza, la dimensione finale dell’epidemia o l’equilibrio endemico potrebbero essere preoccupazioni legittime. Nel caso di COVID-19 la preoccupazione è di rallentare i progressi in modo che gli ospedali possano farvi fronte. Per questo motivo l’attenzione si concentra sulla velocità di trasmissione e sui picchi di prevalenza – appiattire la curva epidemica potrebbe non ridurre la dimensione totale dell’epidemia, ma potrebbe diffondere i casi quotidiani su un orizzonte temporale di lungo periodo, riducendo lo stress dei servizi di emergenza. La mia analisi si è concentrata sullo studio delle conseguenze delle restrizioni alla mobilità su scala locale. Tuttavia, affrontare le dinamiche di diffusione della malattia (come nel caso di COVID-19) richiede l’analisi delle dinamiche a scala locale e globale e ciò richiede la connessione di un gran numero di comunità. L’incorporazione della mobilità di routine, dei viaggi e persino della delocalizzazione richiede l’integrazione di approcci modellistici e la costruzione di sistemi che possono essere analizzati a più scale spaziali e temporali (l’equivalente della biologia dei sistemi, la chiamerei epidemiologia dei sistemi).

In Italia per controllare la diffusione del Coronavirus sono state applicate progressivamente limitazioni al diritto di movimento dei cittadini. Prima sono stati isolati i comuni considerati centri di diffusione del contagio e ora è tutta l’Italia a essere bloccata. Le autorità chiedono di non uscire di casa e di non spostarsi. Unica eccezione è fatta per i lavoratori che sono costretti a recarsi al lavoro. Secondo lei queste misure sono utili per fermare la diffusione del contagio?

In assenza di misure profilattiche contro il Coronavirus e a causa della sua elevata contagiosità dovuta a individui sintomatici e asintomatici, il mio punto di vista è che questo è un buon approccio se combinato con l’allontanamento sociale e l’accesso a strutture mediche di qualità. Il problema è che queste misure, per essere altamente efficaci, devono essere messe in atto piuttosto rapidamente (soprattutto per una malattia altamente infettiva). I ritardi limitano la loro efficacia al punto che, pur facendo la differenza, la riduzione dei casi può essere limitata. Limitare l’arrivo e l’uscita dei viaggiatori riduce la connettività dell’intero sistema e può indebolire la trasmissione.

Nella vicina Svizzera che confina con la Lombardia (principale centro di diffusione del virus in Italia) l’atteggiamento delle autorità è per il momento completamente diverso: non c’è al momento nessuna restrizione al movimento e le scuole restano aperte, nonostante i casi di contagio siano a livello di quelli dell’Italia [la situazione è molto cambiata dal momento in cui questa intervista è stata realizzata. Anche in Svizzera le autorità hanno deciso di chiudere le scuole e le attività non essenziali, NdA]. Dal suo punto di vista una scelta giusta?

Date le caratteristiche della malattia COVID-19 e dato che interventi del genere in Italia e altrove non possono essere mantenuti all’infinito – anche a causa dei costi -, dal mio punto di vista, il modo migliore per rispondere alla pandemia è quello di ridurre le attività quotidiane a un livello minimo sostenibile. Una risposta ben pianificata richiede la valutazione di un adeguato tempo di intervento iniziale, della durata dell’intervento e della gravità dell’intervento [articoli 3 e 4 in bibliografia]. Le autorità sanitarie svizzere potrebbero valutare l’attuazione di tali misure di lotta in un prossimo futuro, in base alle molteplici dimensioni e scale che la diffusione della malattia rappresenta. Le traiettorie epidemiche in Spagna, Italia e New York sembrano abbastanza simili. Non hanno raggiunto il loro apice. L’epidemia in Svizzera potrebbe essere iniziata più tardi e potrebbero avere un’idea migliore di chi è infetto se vengono effettuati test approfonditi.

Il virus è già arrivato negli Stati Uniti: che cosa sta facendo il paese per prepararsi all’emergenza?

Alcuni degli Stati inizialmente colpiti in tutti gli Stati Uniti hanno dichiarato lo “stato di emergenza” ancor prima che il governo americano lo facesse per tutto il paese. La mancanza di test è stata un problema. La Corea del Sud fa circa 18.000 test al giorno e ha già testato più di 250.000 individui. Gli Stati Uniti hanno eseguito circa 16.000 test [cifre riferite a venerdì 16 marzo, NdA]. Per uguagliare lo sforzo effettivo della Corea del Sud, gli Stati Uniti avrebbero bisogno di testare 125.000 individui al giorno.  La risposta nazionale coordinata all’epidemia è stata lenta e di conseguenza abbiamo ad oggi circa 3100 casi e circa 80 morti [cifre riferite a venerdì 16 marzo, NdA] e l’epidemia è appena iniziata. Senza test massicci siamo ciechi e i modelli sono meno utili.

Le chiusure delle scuole, i voli internazionali e gli eventi che coinvolgono il pubblico in massa vengono cancellati in tutto il Paese. Alcuni individui sospettati di essere infetti vengono sottoposti a test e mandati in quarantena a casa, mentre i casi gravi vengono gestiti in ospedali che si aspettano di non sovraffollare la capacità del sistema sanitario statunitense. La domanda è: ora che sta esplodendo, il sistema sarà in grado di gestire i casi che emergeranno? A New York ci sono abbastanza letti d’ospedale, strutture per la quarantena, ventilatori, e i cittadini attueranno misure di distanziamento sociale e rispetteranno le restrizioni di mobilità? Misure che funzionano se attuate in modo efficace e non vengono ritardate.

 

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