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Calamità, catastrofe, cataclisma: benvenuti nell’Antropocene?

Un assaggio del nuovissimo libro di Daniel Tanuro, “E’ troppo tardi per essere pessimisti”

Esce il 21 maggio il nuovo libro di Daniel Tanuro, che affronta il tema della crisi climatica e delinea i contorni di un ecosocialismo possibile.  Tanuro, una firma conosciuta ai lettori di Popoff, spiega perché il Covid-19 è solo un avvertimento di quello che succederà con la catastrofe ecologica, sottolineando che restano pochi anni per adottare le misure necessarie a fermarla. Lo fa passando al setaccio i fallimenti delle conferenze internazionali sul clima, smontando le tesi dei neomalthusiani ossessionati dalla demografia e degli apprendisti stregoni che pensano di risolvere il problema con la geoingegneria. Si scaglia contro i sostenitori del «capitalismo verde» che credono che la transizione ecologica, se guidata dalla «mano invisibile del mercato», possa diventare un grande business. La tesi dell’autore è che il capitalismo sia incompatibile con l’ecologia e che serva un cambiamento di sistema che metta di nuovo al centro i bisogni sociali degli esseri umani.  Ma finché la politica rimarrà subordinata alla legge del profitto, assunta come naturale e ineludibile, cambiare le cose non sarà possibile. Serve una pianificazione ecologica per produrre di meno, trasportare di meno, lavorare di meno e condividere di più: un progetto ecosocialista che miri a un cambiamento di paradigma.

Con una prefazione aggiornata al mondo post-covid, in uscita contemporanea in Francia e in Spagna, È troppo tardi per essere pessimisti (pp. 240 | 16,00 euro, edizioni Alegre) è un vero e proprio libro della ripartenza, che già dal titolo invita a un’azione coesa e immediata per riprendere in mano le redini del nostro futuro. L’autore è un ingegnere agricolo e studioso ecologista belga, tradotto in tutto il mondo. Attivo nelle mobilitazioni internazionali contro il riscaldamento climatico, è tra i maggiori teorici dell’ecosocialismo. In Italia ha pubblicato L’impossibile capitalismo verde (Alegre, 2011).

 

Calamità, catastrofe, cataclisma: benvenuti nell’Antropocene?

da E’ troppo tardi per essere pessimisti di Daniel Tanuro (Alegre edizioni, 2020)

I primi campanelli d’allarme lanciati dalla scienza sul riscaldamento globale e sul declino della biodiversità sono suonati all’inizio degli anni Sessanta. Da allora hanno continuato e si sono moltiplicati. Le diagnosi sono diventate sempre più profonde e precise, anno dopo anno il rischio per gli esseri umani e per i non umani si è fatto più evidente e inquietante. Naturalmente il peggio non è mai assicurato, ma il rischio è sempre il prodotto tra le probabilità e le conseguenze; e il fatto è che non soltanto le conseguenze di questa catastrofe– che forse sta già accadendo – sarebbero letteralmente incalcolabili, ma la probabilità che il disastro si verifichi aumentano ogni giorno di più.

Le prospettive sono fosche: «Salvo scenari che includono cambiamenti trasformativi, le tendenze negative che colpiscono la natura, le funzioni dell’ecosistema e i numerosi apporti della natura alla popolazione della Terra, dovrebbero proseguire fino al 2050 e oltre a causa dell’impatto del cambiamento di destinazione d’uso del suolo, dello sfruttamento dei mari e degli organismi viventi, e del cambiamento climatico». Le principali implicazioni sociali della minaccia cui andiamo incontro possono essere facilmente dedotte da queste righe: «Le aree del mondo che subiranno gli effetti negativi più significativi del cambiamento climatico, del declino della biodiversità, delle funzioni dell’ecosistema e dell’apporto della natura all’esistenza umana, sono anche quelle dove si registra la maggior concentrazione di popolazioni indigene e delle comunità più povere del mondo».

Dati tutti i fattori dunque non è esagerato considerare questa minaccia come molto forte, non solo per la natura ma anche per l’umanità. È in questo contesto che nel 2002 Paul Crutzen ha coniato il concetto di Antropocene. Il premio Nobel per la chimica ha osservato che alcuni dei cambiamenti causati dalla Rivoluzione industriale rimarranno per sempre impressi nella geologia del pianeta: la presenza di nucleotidi radioattivi, l’innalzamento del livello degli oceani, la rapida estinzione delle specie, ecc. Secondo Crutzen dovremmo considerare concluso il periodo dell’Olocene e parlare per il presente di una nuova era geologica, che ha proposto di chiamare «Antropocene» per indicare che l’essere umano (antropos) è diventato una forza geologica. La sua proposta è stata velocemente accolta da altri scienziati e ne è seguito un dibattito ampio e molto politico esteso anche al di fuori della comunità scientifica. A destra si sono levate voci per far risalire l’Antropocene alla comparsa dell’Homo sapiens o all’invenzione dell’agricoltura. Altri, a sinistra, hanno proposto di parlare piuttosto di «Capitalocene» per sottolineare l’origine socio‑storica del passaggio d’epoca. Le motivazioni ideologiche che hanno portato Crutzen a parlare di una «geologia dell’umanità» sono sospette, perché l’espressione porta acqua al mulino di chi dà la colpa di tutti i mali del mondo all’Homo sapiens in quanto specie, distogliendo l’attenzione dalle responsabilità specifiche del capitalismo. Il sospetto è tanto più legittimo in quanto il passaggio da un’epoca geologica all’altra non è un fenomeno che si può osservare nella foga del momento, o nell’arco di un secolo: bisogna avere una certa distanza dagli eventi. Tuttavia, poiché nessuno sembra contestare l’idea del passaggio d’era geologica, la polemica si gioca più che altro sul terreno della semantica. Dobbiamo batterci per l’introduzione della nozione di Capitalocene al posto di quella di Antropocene? Più che una sterile polemica terminologica preferiamo l’approccio di Christophe Bonneuil e Jean‑Baptiste Fressoz: «Aprire un dialogo con gli scienziati, sentinelle del sistema Terra» per «riprendere politicamente il controllo su istituzioni, élite sociali, e sui potenti sistemi simbolici e materiali che ci hanno fatto cadere nell’Antropocene». L’obiettivo è chiaro ed è condiviso anche dai partigiani del Capitalocene: reintrodurre nel cuore del dibattito l’elemento sociale e quello storico, e impedire che vengano messi in ombra dalla geologia. Inoltre se vogliamo adottare il principio del passaggio d’era, e se i geologi sono coerenti con i loro criteri geologici, il passaggio non dovrebbe essere avvenuto fino alla seconda metà del ventesimo secolo, per cui non è la specie umana a esserne responsabile ma il modo capitalistico con cui produce la sua esistenza sociale. Si vede dunque che questa discussione non può essere confinata alla Scienza con la s maiuscola, perché in quanto abitanti di questo pianeta tutti abbiamo voce in capitolo.

Torniamo però alla crisi globale. Tutti questi aspetti risultano interconnessi, direttamente o indirettamente, e sembrano rinviare tutti, in definitiva, allo stesso problema fondamentale: i limiti della sostenibilità dello sviluppo umano su un pianeta finito. Al centro di queste interconnessioni c’è il cambiamento climatico. Il riscaldamento climatico è la terza causa del declino della biodiversità ed è allo stesso tempo una delle principali cause della concentrazione di aerosol atmosferici e dell’acidificazione degli oceani. La centralità del clima nella crisi ecologica non sorprende: esprime la centralità dell’energia nelle attività. Dai tempi della rivoluzione industriale il capitalismo si fonda sui combustibili fossili. Se il salvataggio del clima fosse in corso ci sarebbe speranza anche per gli altri aspetti della crisi ecologica. Ma non è affatto così, anzi è il contrario: a causa della dipendenza strutturale dei nostri sistemi dai combustibili fossili, il cambiamento climatico sta accelerando la maggior parte degli altri meccanismi distruttivi. Guardare le proiezioni è quindi un buon modo per cogliere sia la gravità della situazione, sia l’assurdità criminale delle politiche che si stanno mettendo in atto per reagire (oppure no!), sia l’effetto di queste politiche su altri aspetti della “crisi globale”.

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