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Nel quartiere in cui la felicità era un modo di resistere

Il primo capitolo de I baci sul pane*, romanzo del 2015 della scrittrice scomparsa il 27 novembre [Almudena Grandes]

Ci troviamo in un quartiere del centro di Madrid. Non serve specificarne il nome, perché potrebbe essere uno qualsiasi dei pochi quartieri antichi rimasti, con alcune zone venerande, altre soltanto vetuste. Non ci sono molti monumenti, ma è bello perché è vivo.

Le strade non sono tutte uguali. Ce ne sono di larghe, con alberi frondosi che fanno ombra ai balconi dei piani bassi, ma quelle strette sono molte di più. Anche queste sono alberate, solo che le piante sono più ravvicinate, addossate le une alle altre e sempre perfettamente potate, per evitare che occupino lo spazio che scarseggia persino in aria; ma sono verdi, tenere in primavera e gradevoli d’estate, quando camminare la mattina presto sui marciapiedi innaffiati da poco è un lusso impagabile, un piacere senza prezzo. Le piazze sono antiche, non grandissime. Ciascuna ha la sua chiesa e la sua statua al centro, raffigurante eroi o santi, e panchine, altalene, recinti per i cani, tutti uguali, risultato di un qualche appalto municipale sulle cui origini è meglio non indagare. I piccoli, invece, pochi ma bellissimi, specie per gli innamorati clandestini e gli adolescenti con il vizio di marinare la scuola, hanno resistito eroicamente, anno dopo anno, ai piani di sterminio studiati per loro negli assessorati all’urbanistica del Comune. E restano lì, vivi, come il quartiere stesso.

Ma l’elemento più prezioso di questo paesaggio è rappresentato dai suoi abitanti, tipi umani così diversi e multiformi, ordinati o caotici, come le case in cui vivono.

Molti di loro sono qui da sempre, nelle case belle, con tanto di portineria, ascensore e atrio in marmo, che si allineano nelle strade larghe e in alcune di quelle strette, o in palazzi più modesti, con una semplice guardiola per il portinaio accanto al portone o anche niente. In questo quartiere hanno sempre vissuto fianco a fianco gli atri in marmo e le pareti in gesso, i ricchi e i poveri. I vecchi residenti hanno resistito al fuggifuggi degli anni settanta, quando era di moda scappare dal centro, hanno sopportato la movida degli anni ottanta, quando il crollo dei prezzi aveva attirato un esercito di nuovi coloni, arrivati carichi di scaffali recuperati al mercato del Rastro, poster di Che Guevara e teli indù che potevano servire ad abbellire una parete quanto a rivestire il letto o foderare un divano sfondato, salvato in extremis dalla discarica, e sono sopravvissuti alla rinascita degli anni novanta, quando nella fase iniziale della bolla immobiliare era di nuovo cool risiedere in centro.

Poi la situazione cominciato a traballare nello stesso preciso istante per tutti. All’inizio hanno avvertito una scossa, si sono sentiti venir meno la terra sotto i piedi e hanno pensato che si trattasse solo di un illusione ottica. Non durerà per molto, si sono detti, ma invece è durata, e apparentemente nulla è cambiato mentre l’asfalto delle strade si gonfiava e un vapore bollente, malsano, infettava l’aria. Nessuno ha visto quelle crepe, ma tutti hanno sentito che da lì se ne andava via la tranquillità, il benessere, il futuro. Né tutti hanno reagito allo stesso modo. Quelli che hanno rinunciato a combattere non vivono più qui. Gli altri continuano a lottare contro il drago con le loro armi, ciascuno a modo suo.

Gli anziani non sono tanto spaventati.

Loro ricordano che, non troppo tempo fa, nelle mattinate gelide d’inverno, le donne di servizio non camminavano per le strade di Madrid. Le ricordano sempre di corsa, le braccia incrociate sul petto per cercare di trattenere il calore di una giacca di lana, le gambe nude, e i piedi scalzi, sempre veloci nelle semplici scarpette di tela. Ricordano anche certi uomini scuri che camminavano lenti, il bavero della giacca sollevato e una valigia di cartone in mano. Noi che allora eravamo bambini li guardavamo, ci chiedevamo se non avessero freddo, ci stupivamo della loro tempra e tenevamo a freno la curiosità.

Negli anni Settanta la, la curiosità era un vizio pericoloso per i bambini spagnoli che crescevano tre fotografie -a volte incorniciate su un comò, a volte sepolte dentro un cassetto – di persone giovani e sorridenti che non conoscevano.

«E questo chi è?»

«Be’…» Erano zie o fidanzati, cugine o fratelli, nonni o amiche di famiglia, ed erano tutti morti. «E quando è morto?» Gli adulti cominciavano a innervosirsi. «Parecchio tempo fa»

«E come, perché, cos’è successo?»

«È stato in guerra, o dopo la guerra, ma è una storia tanto brutta, e triste, meglio non parlare di argomenti dolorosi…» E lì, nel misterioso conflitto di cui nessuno osava parlare anche se bruciava ancora negli occhi degli adulti come una ferita aperta, infettata dalla paura o dai sensi di colpa, finivano tutte le conversazioni. «Che c’è? Hai già finito di fare i compiti? Va’ a giocare allora, anzi va’ a lavarti, corri, che poi ritrovate a usare il bagno tutti insieme e finiamo anche l’acqua calda…

Così, noi che eravamo bambini allora abbiamo imparato a non chiedere, anche se agli spagnoli di oggi non piace ricordarlo. E non gli piace nemmeno ricordare che vivevamo in un paese povero, benché questa non fosse certo una novità. Siamo sempre stati poveri, anche all’epoca in cui i re di Spagna erano i padroni del mondo, quando l’oro dell’America attraversava la penisola lasciando dietro di sé soltanto la polvere sollevata dalle carrozze che lo trasportavano nelle Fiandre, per pagare i debiti della Corona. Nella Madrid degli anni cinquanta, dove il cappotto era un lusso fuori dalla portata delle ragazze che facevano le domestiche e dei lavoratori a giornata che bighellonavano nelle strade per far passare il tempo, in attesa di salire su un treno che li avrebbe portati in molto lontano da lì, a vendemmiare in Francia o a lavorare in una fabbrica tedesca, la povertà restava un destino familiare, l’unica eredità che molti genitori potevano trasmettere ai figli. Eppure, in quel patrimonio c’era anche altro, una ricchezza che noi spagnoli di oggi abbiamo perso.

Per questo gli anziani ora hanno meno paura. Ricordano tutto della loro gioventù e hanno impressi nella mente il freddo, i mutilati che chiedevano l’elemosina per la strada, i silenzi, il nervosismo che serpeggiava tra i loro genitori quando si imbattevano in un poliziotto, è una vecchia abitudine ormai dimenticata che non hanno saputo o voluto trasmettere ai figli. Quando cadeva per terra un pezzo di pane, gli adulti dicevano ai bambini di raccoglierlo e baciarlo prima di metterlo nel cestino, tanta era la fame che avevano patito le famiglie negli anni in cui erano morte tutte quelle persone care le cui storie nessuno voleva più raccontare.

Noi che da bambini abbiamo imparato a baciare il pane, abbiamo in mente la nostra infanzia e ricordiamo l’eredità di una fame che ormai non conosciamo più, le disgustose omelette che ci facevano le nostre nonne per non buttare via l’uovo sbattuto che avanzava quando impanavano il pesce. Ma non ricordiamo la tristezza.

La rabbia si, le mascelle serrate, come scolpite nella pietra, di certi uomini, certe donne che in una sola vita avevano accumulato sventure sufficienti per soccombere più volte e, malgrado tutto, si reggevano ancora in piedi. Perché in Spagna, fino a 30 anni fa, i figli ereditano la povertà, ma anche la dignità dei genitori, imparano un modo di essere poveri senza sentirsi umiliati, senza perdere la dignità e senza smettere di lottare per il futuro. Vivevano in un paese in cui la povertà non era motivo di vergogna, né tantomeno un pretesto per arrendersi. Neppure Franco, nei 37 anni di feroce dittatura cui aveva condotto quella guerra maledetta che lui stesso aveva iniziato, riuscì a impedire che i suoi nemici prosperassero in condizioni atroci, che si innamorassero, facessero figli, fossero felici. Non tanto tempo fa, in questo stesso quartiere, la felicità era anche un modo per resistere.

Poi qualcuno ci disse che bisognava dimenticare, che futuro voleva dire dimenticare tutto ciò che era successo. Che per costruire la democrazia era indispensabile guardare avanti, fare finta che qui non fosse mai successo niente. E dimenticando il male, noi spagnoli abbiamo finito per dimenticare anche il bene. Non ci sembrava importante, perché, d’un tratto, eravamo diventati affascinanti, moderni, eravamo di moda… Perché ricordare la guerra, la fame, centinaia di migliaia di morti, tanta miseria?

Così, rinnegando le donne senza cappotto, le valigie di cartone e i baci sul pane, gli abitanti di questo quartiere, che è diverso ma simile a molti altri quartieri di una qualsiasi altra città spagnola, hanno spezzato il legame con la loro stessa tradizione, perso i punti di riferimento che ora potrebbero aiutarli a superare la nuova povertà che li ha investiti di sorpresa, a partire dal cuore di quella Europa che li doveva arricchire e che invece ha strappato loro di dosso un tesoro che i soldi non possono più ricomprare.

Così, gli abitanti di questo quartiere, più che rovinati, ora sono smarriti, sprofondati in una confusione paralizzante e inerme, disorientati come il bambino viziato cui hanno tolto i giocattoli e che non è in grado di protestare, reclamare quanto era suo, denunciare il furto, fermare i ladri.

Se i nostri nonni ci potessero vedere, morirebbero prima dal ridere e poi di compassione. Perché per loro questa non sarebbe una crisi, solo un piccolo contrattempo. E pure noi spagnoli, che per parecchi secoli abbiamo saputo essere i poveri con dignità, non abbiamo mai saputo essere docili.

Mai, fino a oggi.

Questa è la storia di molte storie, la storia di un quartiere di Madrid che si ostina a resistere, a restare uguale a sé stesso anche nell’occhio del ciclone, al centro di una crisi che minacciava di travolgerlo e che invece non c’è ancora riuscita.

In questo quartiere vivono famiglia intere, coppie con o senza cane, con figli o senza figli, e persone sole, giovani, mature, anziane, spagnole e straniere, a volte felice a volte disperate, quasi sempre felici e disperate solo a tratti.

Alcuni hanno gettato la spugna, ma sono di più quelli che resistono per se stessi e per gli altri, e si ostinano coltivare i vecchi rituali, le abitudini di un tempo, per non smettere di essere quelli che sono, perché i vicini possano continuare a chiamarli con il loro nome.

Amalia per poco non ha dovuto chiudere il suo negozio di parrucchiera quando le hanno aperto una manicure cinesi proprio davanti: le clienti le sono rimaste fedeli, ma le è toccato abbassare i prezzi.

Il bar di Pascual è ancora aperto, anche se giorno dopo giorno è sempre meno un bar e più la sede degli inquilini delle case popolari che combattono per conservare i loro appartamenti ad affitto calmierato che il Comune ha venduto a tradimento a un fondo avvoltoio; e anche la sede dell’Associazione Donne, che ha dovuto chiudere il locale in cui si riuniva quando è rimasta senza sovvenzioni; quella del Comitato Genitori della scuola, che ormai non apre più il pomeriggio perché hanno tagliato i fondi per le attività extra scolastiche… Al proprietario non importa. Pascual è un uomo tranquillo, gioviale e si accontenta di chiedere che almeno un socio su tre di ogni associazione ogni tanto ordini una birra. Agli altri due, se non c’è alternativa, offre un bicchiere d’acqua con un sorriso sulle labbra

Molti negozi hanno chiuso. Ne sono stati aperti di nuovi, quasi sempre economici, anche se non tutti sono orientali. Ma la caffetteria, la farmacia, il cartolaio, il mercato restano dove sono sempre stati, come punti cardinali del quartiere di un tempo, del quartiere di oggi.

Quanto al resto, in settembre inizia la scuola, a dicembre arriva Natale, in aprile le piante germogliano, D’estate fa caldo, e nel frattempo la vita passa.

Venite con me a vederla.

I baci sul pane è stato pubblicato in Italia da Guanda con la traduzione di Roberta Bovaia

 

 

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