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Osvaldo Soriano, el escritor del pueblo

Uno scrittore e giornalista indimenticabile. 25 anni dopo la morte di Osvaldo Soriano*

“Mi sono ricordato di te laggiù, siamo stati insieme in più di un momento”, scriveva Osvaldo Soriano a Giovanni Arpino nel 1983, durante il suo primo viaggio in Argentina dopo sette anni di esilio. E’ un dialogo interiore che si intreccia anche tra certi scrittori e i loro lettori. Per quello che concerne Soriano succede da venticinque anni a quanti ne hanno amato l’«Humour nero, azioni fulminee, dialoghi serrati e scoppiettanti, uno stile secco e rapido, come quello di un Hemingway eroicomico», come scriveva Italo Calvino a proposito della scrittura dell’argentino. Bruno Arpaia, il 24 maggio ’97, scrisse così: «Lo spingevano passioni semplici, popolari, una curiosità insaziabile per le persone e le cose; per questo milioni di lettori in tutto il mondo si identificavano nelle sue storie, nei suoi personaggi che si aggiravano per l’Argentina come se fossero stranieri attoniti di fronte a ciò che vedevano. Da Osvaldo, quei personaggi prendevano in prestito l’atteggiamento sornione, il dolce mezzo sorriso che non lo lasciava mai, lo sforzo di masticare ogni briciola di vita che gli capitasse a tiro».

L’autore di Mai più pene né oblio, Quartieri d’inverno e Un’ombra ben presto sarai, tra altri testi di narrativa, e di notevoli articoli – in Italia sul manifesto – «ha catturato come nessun altro l’idiosincrasia argentina, con le sue contraddizioni, i suoi sogni e le sue miserie», si legge oggi su Página/12, quotidiano di sinistra che esce a Buenos Aires, dove Cristian Vitale scrive una considerazione che conferma le parole di Arpaia: «Oggi sono passati venticinque anni senza Osvaldo Soriano, e si potrebbe continuare a soffermarsi sulle tracce estetiche della sua letteratura popolare. Ma in realtà il risultato più profondo non sarebbe stato tale senza l’uomo che c’è dietro. E l’uomo che c’era dietro era proprio uno di noi, con il bonus aggiuntivo di saper immaginare, creare e scrivere. Cos’altro se non essere uno scrittore del popolo? Cos’altro se non ricordare che c’è stato un tempo in cui i suoi libri si vendevano come il gelato d’estate. Che il teatro, ma soprattutto il cinema, lo hanno adottato come fonte inesauribile di storie da raccontare. Il trasferimento sul grande schermo di No habrá más penas ni olvido (Non ci sarà più dolore né oblio) è rimasto saldamente impresso nell’immaginario argentino».

«Colpisce un altro punto chiave – leggiamo ancora il quotidiano argentino – non era indispensabile passare per il mondo accademico o universitario per essere uno scrittore. In senso stretto, Soriano non ha nemmeno finito il liceo, ma le esperienze di un figlio di padre errante, sensibile e osservatore che lavora di città in città, è riuscito a catturare in modo impeccabile il battito del suo popolo, e a metterlo in pagine senza risorse superflue».

In quella lettera ad Arpino, suo collega ossia romanziere e giornalista, parlava anche di sport: “Sono andato a vedere del football a Buenos Aires; è talmente brutto che bisognerà cambiargli nome, inventare una definizione nuova per ventidue tizi con un pallone e due porte». E più avanti: «Il pugilato, invece, continua a essere buono, come le belle donne e il vino molto a buon mercato. Non dimenticare di scrivermi qualche riga. Un grande abbraccio e a presto».

Una delle missive più citate suona come una profezia: «Estimado señor Arpino, gli amici mi dicono che in un piccolo club di Buenos Aires, l’Argentinos Juniors, c’è la salvezza del Torino. Si chiama Diego Armando Maradona, ha 17 anni ed è il più grande giocatore (anche se è basso di statura) degli ultimi 30 anni, costa credo 5 milioni di dollari. Se il Torino ha quei soldi è salvo. Poi non dite che non vi avevo avvertito».

Ma Soriano non è solo uno scrittore di storie di calcio. Nella corrispondenza, di cui conosciamo – grazie alla vedova di Arpino – solo le lettere di Soriano, si trovano tracce del rapporto tra giornalismo e letteratura, della vita in esilio “Mi è difficile abituarmi all’idea del ritorno impossibile”, confessava nella missiva spedita il 2 novembre 78. Poi: «Hemingway diceva (e ne sono convinto anche io), che a un certo punto bisogna allontanarsi dal giornalismo. Lo “sport” ha il vantaggio di essere una forma che non corre il rischio di “mescolare” gli stili».

Figlio di Aracelis Lora Mora e Alberto Franca, un catalano ispettore di Obras Sanitarias (l’azienda incaricata del servizio di acqua potabile in Argentina), passò la sua infanzia insieme alla famiglia girando per l’Argentina, di paese in paese per le diverse province, seguendo il destino lavorativo di suo padre. Fu metallurgico, raccoglitore di mele prima di iniziare il suo pellegrinaggio tra i giornali. Compiuti 26 anni, si trasferì nel 1969 da Tandil a Buenos Aires per entrare nella redazione della rivista “Primera Plana”. Nel 1971 entrò a far parte della redazione del nascente quotidiano La Opinión, un giornale che intendeva rivolgersi alla borghesia liberale e di sinistra. Le vicende del giornale però si intrecciarono ben presto con quelle politica e con il tentativo di eliminare dal giornale qualsiasi collaboratore di sinistra. Per sei mesi di seguito, a Soriano, che rimase al giornale fino al 1974, non fu concesso di pubblicare una sola riga. Fu in questo contesto che egli decise di scrivere dei racconti in cui ricostruiva la vita dell’attore inglese Stan Laurel. Quei racconti si trasformarono ben presto in un romanzo: Triste, solitario y final, una affettuosa e struggente parodia, ambientata a Los Angeles e con protagonista Philip Marlowe. Nel 1976, in seguito al colpo di stato, Soriano abbandonò l’Argentina e si recò prima in Belgio e poi a Parigi, dove rimase fino al 1984. « La cosa dannosa del fascismo – dirà – è che induce gli imbecilli a credersi molto furbi. Quanto più uno è idiota, tanto più il fascismo lo fa sentire orgoglioso di sé».

Al suo rientro a Buenos Aires la pubblicazione dei suoi libri lo portò al successo, non solo in Sudamerica, ma in tutto il mondo. Morì il 29 gennaio del 1997 a Buenos Aires, vittima di un cancro ai polmoni. E’ sepolto nel Cimitero della Chacarita (Buenos Aires).

Paco Ignacio Taibo, che non l’aveva mai incontrato prima, gli disse di considerarlo uno dei suoi maestri. E’ successo a Saint Malo, un anno prima che Soriano ci lasciasse: «Se negli anni duri dopo il Sessantotto», gli confessò Taibo, «non ci fossero stati i tuoi libri, noi tutti avremmo perso ogni speranza».

Nell’ultimo capitolo del suo ultimo libro, Pirati, fantasmi e dinosauri, el Gordo fa dire al protagonista, il Mister Peregrino Fernandez: «Sono stanco, ho più anni di quanti ne abbia confessato e l’infermiera si avvicina per portarmi a cenare. Qui a Parigi andiamo a letto molto presto e adesso che si avvicina l’inverno l’unica cosa che posso fare è guardare vecchi film, leggere vecchi libri e evocare vecchie partite. «Non dovete provare pietà per me: la memoria, se è vera e violenta, è un ‘materiale eccellente’».

«A mio parere, i racconti più belli e ‘utili alla causa’ sui desaparecidos li hanno scritti Julio Cortàzar e Osvaldo Soriano senza mai adoperare la parola desaparecidos», rispondeva Stefano Tassinari a Giuseppe Ciarallo che lo intervistava per PaginaUno. Proprio il Tass, di cui sta per scoccare il decennale della morte, dedicò a Soriano “Fùtbol. Il sogno ribelle di Osvaldo Soriano” podcast di Radio3 rintracciabile sul sito dedicato allo scrittore ferrarese.

*articolo scritto da Popoff per le “scor-date” della Bottega del Barbieri
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