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Homeculture25 aprile. «Non perdere la pietas ma nemmeno la memoria»

25 aprile. «Non perdere la pietas ma nemmeno la memoria»

Intervista a Paolo Pezzino, presidente dell’Istituto Parri: «Oggi si deve ricordare la vittoriosa lotta di liberazione dal nazifascismo» [da Trieste, Chiara Nencioni]

Siamo a Trieste, Risiera di San Sabba. Il complesso nacque come stabilimento per la pilatura del riso nel 1898 ma venne dapprima utilizzato dall’occupatore nazista come campo di prigionia provvisorio per i militari italiani catturati dopo l’8 settembre 1943 e dalla fine di ottobre, come Polizeihaftlager  destinato sia allo smistamento dei deportati in Germania e in Polonia e al deposito dei beni razziati, sia alla detenzione ed eliminazione di ostaggi, partigiani, detenuti politici ed ebrei.

È qui che incontriamo il Professor Paolo Pezzino, presidente dell’Istituto Nazionale Ferruccio Parri – Rete degli istituti storici della Resistenza e dell’età contemporanea – invitato a presiedere la cerimonia commemorativa (rigorosamente bilingue, italiano e sloveno) del 25 Aprile, proprio lungo questo “confine difficile” che ancora oggi causa politiche e strumentalizzazioni politiche.

Una sola domanda (ma assai complessa), Professore: lei è qui con suo figlio, che ha appena compiuto 18 anni. Come spiegherebbe cosa è stata la Resistenza ad un ragazzo che si affaccia ora all’età adulta e al diritto di voto?

Cercherò in poche parole di spiegare perché vale ancora la pena ricordare il 25 aprile e quella parola che ne ha sintetizzato il significato: “Resistenza”.

Nel giorno di oggi noi ricordiamo la fine della guerra, la sconfitta dell’esercito tedesco ad opera degli alleati, celebriamo il sacrificio dei tanti, civili e combattenti, morti in quegli anni lottando contro il regime fascista, e l’inizio di una nuova fase nella storia del paese, che vide i suoi momenti fondanti nel referendum istituzionale del 2 giugno 1946, che sanzionò il distacco degli Italiani dalla monarchia, complice dei crimini del fascismo, e nella Costituzione Repubblica italiana del 27 dicembre 1947, che garantisce tuttora le libertà civili e il progresso sociale.

È anche opportuno ricordare che fu per la prima volta allora, nel dopoguerra, che a tutte le Italiane e gli Italiani fu riconosciuto il diritto di voto, come uno dei diritti di cittadinanza che rappresentavano la conseguenza della vittoria delle forze antifasciste, mentre era dal colpo di stato monarchico-fascista del 1922 che non si erano più svolte libere elezioni in Italia. Nonostante qualcuno oggi preferisca descriverlo come un regime da operetta, il fascismo fu regime totalitario e poliziesco che, con la promulgazione della legislazione razziale (che avvenne proprio in questa città, Trieste), inflisse alla civiltà l’offesa più grave che un regime politico possa arrecarle, e spinse infine il paese in un’avventura, quella della guerra, dalla quale gli Italiani, al pari dei cittadini di tutte le nazioni coinvolte nel conflitto, ricavarono lutti e distruzioni.

Quella guerra, scatenata dall’Italia fascista e dalla Germania nazista, era funzionale ad un progetto di nuovo ordine internazionale, lucidamente perseguito, basato sulla subordinazione delle nazioni agli interessi delle razze superiori, un progetto, di sovversione della civiltà europea, attorno al quale si sarebbero dilaniati i popoli del vecchio continente, che ha portato 50 milioni di morti nel conflitto, di cui circa 30 in Europa, 300.000 italiani morti e feriti, enormi distruzioni ovunque. Proprio la tragedia della guerra, le ripetute sconfitte, infine lo sfascio dell’8 settembre 1943, rappresentarono per alcuni Italiani il punto di svolta, la spinta ad una consapevole scelta di campo antifascista, che rappresentò il primo segno di riscossa della coscienza democratica dopo venti anni di regime fascista: si trattò allora di scegliere, nei dilemmi indotti dai conflitti di appartenenza, fra la continuità statale rappresentata dalla monarchia, nonostante la sua passata compromissione col fascismo e la vergognosa fuga della famiglia reale, oppure le lusinghe di un malinteso onore di patria, che alcuni vedevano ancora rappresentato dal fascismo della Repubblica sociale; oppure ancora di impegnarsi in nome di un futuro diverso che non trovava, allora, alcun solido punto di ancoraggio istituzionale, ma che, anche attraverso il sacrificio personale, mirava alla nascita di un’Italia “nuova”. Fu comunque una scelta dolorosa e non facile, perché si trattava di combattere non solo contro gli ex alleati, divenuti forza d’occupazione, oppure contro i nuovi alleati, ritenuti dai fascisti repubblicani, nonostante l’armistizio, i nemici di sempre, ma anche contro altri Italiani, schierati a fianco dell’esercito straniero contro il quale si era deciso di combattere. In quei mesi, in Italia, gli Italiani combatterono contro gli Italiani, per la prima volta nella storia della nostra nazione: il che conferisce a quella guerra anche il carattere di una guerra civile che, va sottolineato, si inseriva in quella più vasta guerra civile europea, fra due progetti alternativi di ordine internazionale, nella quale si era trasformato ben presto il secondo conflitto mondiale nel vecchio continente.

A tutti coloro che in quella guerra fratricida caddero va il vostro rispetto, ma ciò che non vorrei trasmettere ai giovani, oggi 25 Aprile, è di commettere l’errore di cancellare le differenze fra le due parti in lotta, annullando le loro identità opposte, se non altro per rispetto nei confronti di chi, proprio per affermare quelle identità, ha creduto di dover rischiare la vita. Se i morti sono tutti eguali, nel senso che a ciascuno di essi va tributata umana compassione, non equivalenti sono le cause per le quali essi hanno combattuto. Ed allora bisogna esercitare la nostra capacità di giudizio storico ed affermare che coloro che avevano scelto di seguire fino in fondo i sogni di grandezza nazionale ed imperiale della dittatura fascista, anche se erano (alcuni) sinceramente convinti di difendere l’onore della patria, si misero comunque al servizio dell’esercito tedesco in una guerra non solo totale, già sperimentata nel primo conflitto mondiale, ma anche per la conquista di territori e per l’affermazione della supremazia razziale ariana. E che all’Italia e agli Italiani in quel progetto di nuovo ordine europeo venisse assegnato un posto tutto sommato subalterno niente toglie alla responsabilità di chi, per quel progetto, scelse comunque di combattere e schierarsi. In coloro che in quei mesi si opposero alla guerra, all’occupazione tedesca e ai fascisti repubblicani, con o anche senza le armi (i partigiani combattenti, i militari italiani internati in Germania che rifiutarono la libertà loro promessa se si fossero arruolati nell’esercito di Salò o in quello tedesco, i deportati per motivi politici, le donne che aiutarono i soldati sbandati a nascondersi e raggiungere le loro abitazioni, i contadini che nascosero prigionieri alleati fuggiti e nutrirono tante persone sfollate nelle campagne, i sacerdoti che rimasero a fianco dei propri fedeli, affrontando insieme spesso violenze e morte) vi era un’assunzione di responsabilità per lo scoppio della guerra, il riconoscimento che l’Italia era stata, insieme alla Germania, la principale causa della tragedia che aveva colpito il mondo a soli venti anni di distanza dalla fine del primo conflitto mondiale. Bisognava riconoscere che la maggioranza degli Italiani, sottoposta ormai da anni alla propaganda fascista, aveva aderito all’inizio alla guerra, sedotta dalle promesse di facili vittorie e di ingrandimenti territoriali ai danni di altre nazioni: tanto più valore allora assume la scelta della Resistenza contro i Tedeschi ed i fascisti, proprio in nome di un’idea di patria radicalmente alternativa a quella nella quale il fascismo aveva indotto a credere.

Voglio ricordare a chi ha oggi 18 anni che non per tutti i caduti celebriamo il 25 aprile: la pietas anche per gli sconfitti è doverosa, rappresenta il segno di un’autentica riconciliazione nazionale, manifesta l’attenuazione dei rancori e dei risentimenti, il riconoscimento delle tragedie umane anche nell’altra parte. Ma il 25 aprile si ricorda, e non può che essere così, la vittoriosa lotta antifascista dalla quale è nata la Repubblica e la nostra Costituzione. L’antifascismo è indubbiamente uno dei valori fondanti la nostra convivenza civile, perché i diritti di cittadinanza in questo paese sono stati l’esito di una lotta combattuta contro un regime totalitario. E la memoria che ogni 25 aprile celebriamo è quella della sconfitta dall’esercito della Germania nazista ad opera di quelli alleati, coadiuvati dai partigiani e dal Corpo italiano di liberazione; è quella di una guerra civile vittoriosa contro il fascismo.

Che invito rivolge dunque a suo figlio e ai giovani oggi?”

Li invito a rivendicare con forza, come Italiani, contro ogni tentativo di sminuirne il valore, la legittimità nazionale e l’orgoglio di averla di averla combattuta e vinta: orgoglio di cittadini per tutti coloro che, nati successivamente a quegli eventi, ad essi tuttavia si volgono per riconoscersi come membri di una nazione, la cui convivenza è garantita dalla Costituzione nata a seguito di quella guerra vittoriosa.

La cerimonia comincia, il professor Pezzino si avvia con altri a deporre la e le corona là dove sono murate le  ceneri e le ossa ritrovate nel campo dopo la fuga delle SS. Quell’area contrassegnata dalla piastra metallica, dove c’era l’edificio destinato alle eliminazioni – la cui sagoma è ancora visibile sul fabbricato centrale – con il forno crematorio, oggi sé ornata da stendardi, labari, gonfaloni e allori. Peccato sapere che a Basovizza, a pochi km di distanza, si siano radunati dei neofascisti, poche decine, appartenenti a Veneto Fronte Skinheads e Gruppo Unione Difesa. E che una guerra stia distruggendo il confine orientale dell’Europa.

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