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Diritti umani in Palestina: la trappola della realpolitik

Nostra intervista a Francesca Albanese, Special Rapporteur delle Nazioni Unite per i Territori Occupati Palestinesi

Qui il rapporto all’ONU di ottobre 22. Qui per scaricarlo in Pdf 

Francesca Albanese

Francesca Albanese, Special Rapporteur delle Nazioni Unite per i Territori Occupati Palestinesi, discute con noi, all’Università di Pisa, il suo primo rapporto, presentato alle Nazioni Unite nell’ottobre del 2022, sulla situazione dei diritti umani nei Territori Palestinesi Occupati.

Innanzitutto quale è questo territorio occupato? E da quando?

Si tratta della Cisgiordania, della striscia di Gaza e di Gerusalemme est. Tale territorio è stato occupato da Israele dal 1967 (ndr in concomitanza con la ‘Guerra dei Sei Giorni’). Quindi, questo territorio, che avrebbe dovuto essere libero e sovrano, é occupato militarmente da oltre 55 anni, nonostante varie Risoluzioni dell’ONU, le Convenzione di Ginevra e il parere della Corte Internazionale di Giustizia dell’Aia sulla necessità di realizzare il diritto all’autodeterminazione del popolo palestinese.

Questi territori sono popolati da coloni israeliani: ciò è legale?

Tutti i maggiori organismi internazionali, inclusi i già citati Consiglio di Sicurezza dell’ONU e la Corte Internazionale di Giustizia, ma anche l’UE, Amnesty International, Human Rights Watch riconoscono gli insediamenti come illegali, in quanto violano l’art. 49.6 della Quarta Convenzione di Ginevra: «La potenza occupante non potrà mai procedere alla deportazione o al trasferimento di una parte della propria popolazione civile sul territorio da essa occupato». In più, l’art. 8.2,b,VIII dello Statuto di Roma definisce «il trasferimento, diretto o indiretto, da parte di una potenza occupante, di una parte della propria popolazione civile, sul territorio da essa occupato» come un crimine di guerra. In sintesi, la presenza di colonie per soli ebrei nella Palestina sotto occupazione costituisce un crimine di guerra, soprattutto perché un’occupazione militare non puo’ mai trasformarsi in veicolo per acquisire territorio (occupato): la conquista non é parte del diritto moderno, ma di pratiche che dovremmo lasciare al medioevo. L’occupazione stessa viola il diritto di autodeterminazione del popolo palestinese, nelle sue componenti politica, socio-culturale ed economica.

Da quanto dura questa situazione?

Tre generazioni di Palestinesi sono cresciute sotto l’occupazione militare di Israele. Circa il 40% di loro sono rifugiati espulsi e depredati da Israele dal 1948, al moment della sua costituzione sulla maggior parte del territorio che fino ad allora era stata la Palestina, sotto mandato britannico dal 1922-1948. A seguito della ‘Nakba’ (catastrofe che definisce la distruzione della Palestina che fu e l’esilio dell’80% dei suoi cittadini arabi), 750.000 Palestinesi furono espulsi e 500 villaggi sono stati distrutti. Che Israele abbia creato uno stato dal deserto, fa parte della mitologia. Nel 1967 Israele ha occupato cio’ che restava del territorio della Palestina storica, in nome della sicurezza; ma da allora ha posto in essere forme di acquisizione di terra e risorse e controllo della popolazione, che sono assimilabili al colonialismo d’insediamento che altri popoli, in altre parti del mondo, hanno conosciuto in passato.

Cosa vuol dire vivere sotto occupazione?

Per i Palestinesi, significa vivere in un microcosmo di violenza e abusi. La striscia di Gaza è sotto assedio da 16 anni che in tanti riconoscono essere una punizione collettiva sanzionata anch’essa dal diritto internazionale come crimine di guerra. Gerusalemme é trattata da Israele come se fosse la propria capitale (non territorio occupato ma annessa, altro crimine internazionale). La Cisgiordania é esposta come una ferita apetta agli assalti di soldati e coloni. In questo spazio frammentato e usurpato, i Palestinesi sono esposti ad una pluralità di forme di confinamento fisico, sfratti abusivi, deportazioni, sottrazione di terre, detenzione e arresti arbitrari (anche di bambini) violenza, discriminazione nelle leggi e nella loro applicazione, impossibilità di godere delle risorse del properio territorio (acqua, terra, risorse del sottosuolo) e accesso dignitoso a servizi di base, umiliazione e mancanza di dignità sotto forme di controllo assoluto di una forza sulla quale non si ha alcun potere. Le autorità palestinesi esistono ma all’interno del sistema occupazione, non come alternativa o forza oppositiva. In questa situazione di oppressione generalizzata, la violenza é strutturale e pervasiva. E’ inevitabile che depredare e soggiogare un intero popolo crei un circolo di violenza.

Ci può chiarire la questione dello sfruttamento israeliano delle risorse naturali palestinesi?

L’Area C della Cisgiordania, che, come sancito dagli Accordo di Oslo é sotto il completo controllo d’Israele (controllo che sarebbe dovuto durare 5 anni dalla firma degli Accordi), contiene la maggior parte delle risorse naturali e quasi tutta la terra coltivabile della Cisgiordania. Israele mantiene il completo monopolio su queste risorse, dalle sorgenti d’acqua, ai terreni per il pascolo e l’agricolutra, estraendo minerali e petrolio, mentre ha destinato, secondo la Banca Mondiale     appena l’1% della terra allo sviluppo palestinese. Inoltre parte del gas israeliano viene estratto dalle acque di Gaza, nelle quali Israele limita l’accesso dei palestinesi, gli unici sovrani delle risorse naturali nella Palestina occupata. Il saccheggio delle risorse naturali costituisce un ulteriore crimine di guerra.

Secondo le stime delle Nazioni Unite, senza l’occupazione israeliana, il prodotto interno lordo (PIL) pro capite della Cisgiordania nel 2019 sarebbe stato del 44% superiore al suo valore effettivo.

Dunque anche lo sfruttamento delle risorse viola il principio di autodeterminazione

Esattamente. Innanzitutto, una dominazione, un’occupazione straniera è incompatibile con il diritto all’autodeterminazione.  Esso è un diritto inalienabile del popolo palestinese, come affermato dall’Assemblea Generale dell’ONU nel 1970 (Risoluzione 2672 del 1970 e 3236 del 1974). Nonostante questo, Israele continua ad assediare la terra palestinese, a costruire colonie in Cisgiordania e Gerusalemme, appropriandosi delle risorse      palestinesi e limitandone l’accesso. La costruzione di      colonie e il trasferimento di coloni in territorio occupato, distruggendo le infrastrutture della popolazione occupata e estromettendo la stessa, costituiscono una grave violazione delle Convenzioni di Ginevra e un crimine di guerra.

Per una tragica ironia, a Israele é stato permesso di portare avanti un progetto coloniale d’insediamento, che si é inevitabilmente tramutato in apartheid, proprio nel momento storico in cui il resto del mondo affrontava il processo di decolonizzazione e prometteva a se stesso e i suoi popoli di porre fine al colonialismo, in tutte le sue forme.

Lei ha appena parlato di Apartheid. Questo è un termine che si usava per la segregazione dei neri in Sudafrica. Si può usare anche per i Palestinesi che vivono nei territori occupati?

Assolutamente sì. Non si può chiamare in altro modo il regime di discriminazione istituzionalizzata e pervasiva che Israele ha imposto sulla popolazione palestinese sotto occupazione, al fine di sottometterla e depredarla. Al contempo, l’utilizzo del quadro normativo del crimine di apartheid é necessario ma non sufficiente:  perché non mette in discussione la sovranità d’Israele sul territorio occupato e non tiene conto      dell’animus, l’intento, acquisitivo di Israele. Un termine che meglio si addice a descrivere il controllo che Israele esercita, da quasi 56 anni, sul territorio palestinese occupato é quello di colonialismo d’insediamento, il cui marchio caratteristico é proprio logica di espellere la popolazione indigena per trasferirvi la propria popolazione. Di questo, come la storia del Sud Africa dimostra, l’apartheid é un naturale precipitato.      Al fine di attuare questo progetto coloniale, Israele, sin dal 1967, viola le quattro componenti essenziali del diritto all’autodeterminazione: la sovranità territoriale, la sovranità sulle risorse naturali, l’esistenza culturale in quanto popolo, e la formazione organica e il buon funzionamento di un governo e di politiche che rappresentino tutto il popolo al fine di depalestinizzare la terra, cioé ridurre la presenza, identità e frustrare l’indipendenza collettiva dei Palestinesi.

E al livello politico, qual è la situazione dei Palestinesi che vivono nei territori occupati?

L’attività politica dei palestinesi sotto occupazione viene sistematicamente e deliberatamente repressa dal governo israeliano al fine di scoraggiare e impedire l’emergenza leadership political palestinese. A questo scopo, tra le violazioni dei diritti umani attuate dai vari governi israeliani che si sono susseguiti dal 1967 a oggi, si trovano esecuzioni extragiudiziali, detenzioni arbitrarie e imprigionamenti di massa (anche di rappresentanti eletti e difensori dei diritti umani), revoche di residenza e deportazioni di massa, anche di personalità politiche, al di fuori del territorio palestinese occupato.  Gli Accordi di Oslo hanno istituito l’Autorità Palestinese (AP) come rappresentate political del popolo paolestinese, ma l’AP finisce per essere un completo subalterno alle forze d’occupazione: come può un governo sotto occupazione e colonializzazione, a cui viene negata la completa giurisdizione sul suo popolo e sovranità sulla sua terra, funzionare?

C’è però da dire, anche in relazione al lancio delle pietre da lei citato, che non solo gli Israeliani ma anche i Palestinesi fanno ricorso alla violenza.

Questa affermazione va contestualizzata. Io condanno fortemente il ricorso alla violenza, di ogni forma di violenza, chiunque la pratichi.

E’ però necessario fare due distinguo. Il primo è che nella relazione Israele/Palestina, uno è l’occupante, con specifiche responsabilità verso il secondo l’occupato. Ma uno é anche il colonizzatore e l’altro il colonizzato. Il secondo distinguo è che sebbene il diritto internazionale riconosca il diritto alla resistenza ai popoli sotto giogo di occupazione, dominazione aliena e colonialismo al fine di realizzarne il diritto all’autodeterminazione (risoluzione UNGA 37/43, 1982), nella pratica non qualsiasi forma di resistenza, contraltare del diritto all’esistenza di un popolo,  è benevolmente accettata. Il ricorso alla resistenza armata in nome della libertà e l’indipendenza, dei cui esempi la storia della decolonizzazione abbonda, non é sempre accettata dagli Stati. In ogni caso, qualsiasi uso della forza deve seguire parametri e regole ben precise, dettate dal diritto umanitario internazionale. I palestinesi hanno per decenni sfruttato al meglio gli strumenti pacifici e i meccanismi della giustizia internazionale per liberarsi dal giogo dell’occupazione israeliana e realizzare i loro diritti. La comunità internazionale, però, fatica a riconoscere e far seguito a queste domande legittime.

Per queste sue posizioni lei è stata spesso criticata. Cosa risponde a chi la taccia di antisemitismo?

Io sono criticata per il mio mandato, che richiede le posizioni che prendo, in punto di fatto e di diritto. Le mie analisi e critiche sono volte alle pratiche e politiche che il governo israeliano attua nei confronti del popolo palestinese sotto occupazione. Queste pratiche e politiche hanno oltrepassato già da decenni il limite della legalità, come ampiamente documentato da rinomate organizzazioni palestinesi, israeliane e internazionali. L’accusa di antisemitismo non è altro che una tattica per deflettere l’attenzione dalla sostanza di queste considerazioni e la responsabilità (di Israele innanzitutto) che ne consegue.

Di fronte alla situazione di sopruso nei territori occupati, quali sono gli approcci adottati dalla comunità internazionale?

Sono essenzialmente tre: uno negoziale e politico, secondo cui l’unica soluzione possibile é quella di un  negoziato “tra le parti” che “ponga fine al conflitto”;       uno umanitario che si concentra a migliorare alcuni aspetti della vita sotto occupazione, senza metterla in discussione e trattandola come un’emergenza umanitaria cronica; e quello socio-economico che mira a promuovere lo sviluppo economico della popolazione sotto occupazione, come se un popolo potesse svilupparsi sotto un dominio oppressivo e segregazionista. sono tutti fallaci.

E il mondo politico che dice?

La realtà dei palestinesi che vivono sotto il controllo israeliano (specie sotto occupazione), non riguarda solo la violazione grave di diritti fondamentali, ma anche l’eccezionalismo garantito ad Israele dagli Stati occidentali nel tentativo di risparmiargli qualsiasi forma di responsabilità per le violazioni istituzionalizzate e diffuse che commette nei confronti dei palestinesi da quasi 56 anni in Cisgiordania, inclusa Gerusalemme est, e Striscia di Gaza. Perché dunque la comunità internazionale preferisce questi approcci inadeguati piuttosto che fare ricorso al diritto internazionale, che offre una guida, fondata sul rispetto per i diritti umani di Palestinesi e ebrei Israeliani, per affrontare tale situazione? Questa è la trappola della realpolitik (termine con cui si designano prassi politiche sottendenti ad un ordine politico giustificato dalle esigenze del potere, spesso fine a sé stesso) in cui si rischia di sacrificare il primato del diritto internazionale come pilastro fondante, forza regolatrice e correttiva dell’ordine internazionale. Qui è necessario che sia la forza del diritto, non l’arbitrio del più forte, a definire i rapporti internazionali: se si rinuncia del tutto al diritto internazionale nei confronti di qualche stato, come si potrà invocarlo contro chi, per ipotesi la Russia, decidesse un domani di trasferire migliaia di cittadini russi in Donbas, e considerarla come parte del proprio stato?

Quale soluzione, invece, auspicherebbe lei?

La questione Israelo-Palestinese non è un conflitto irrisolvibile, frutto di una rivalità ineluttabile tra due popoli, due religioni, due identità inconciliabili, ma la risultante della relazione di forza tra una un governo colonizzatore di un popolo colonizzato.      Un negoziato, da solo, non può risolvere una situazione così iniqua e lo smantellamento dell’apparato militare e d’apartheid è una condizione sine qua non affinché il popolo Palestinese sia in grado di godere del proprio diritto all’autodeterminazione; solo allora i termini di una situazione politica potranno essere discussi tramite negoziati. Nel frattempo, é necessario che gli Stati terzi adottino misure economiche e diplomatiche come prescritto nella Carta delle Nazioni Unite, come quelle ampiamente utilizzate, ad esempio, contro la Russia. Inoltre, gli Stati dovrebbero perseguire la responsabilità degli autori di crimini di guerra e contro l’umanità, sia attraverso l’indagine in corso della Corte penale internazionale che attraverso la giurisdizione universale.

 

 

1 COMMENTO

  1. Correzione. Non ho detto che Gli Accordi di Oslo del 1993 hanno “incoraggiato fortemente la Resistenza palestinese”, ma che hanno delegittimato in qualche modo la resistenza come ‘armed struggle’ propria dei movimenti di liberazione nazionale (vedi decolonizzazione).

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