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Colonialismo italiano: studiare, non negare

L’attualità stringente della lezione di Angelo Del Boca, a due anni della scomparsa dello storico che smontò il mito degli Italiani “brava gente”

Italiani brava gente? Questa domanda retorica, ispirata al titolo del saggio di Del Boca del 2005, dà nome al convegno internazionale Angelo del Boca e la storia del colonialismo italiano, tenutosi a Milano il 25 maggio.

A quasi due anni dalla sua scomparsa, doverosa è una giornata di studi in onore di Del Boca, il coraggioso e pionieristico giornalista e storico che per primo ha denunciato i crimini di guerra compiuti dalle truppe italiane durante le guerre coloniali, insegnando agli Italiani che non erano brava gente. A lui va il merito di aver scalfito il muro di omertà sulle responsabilità italiane nella corsa fascista all’Africa, uno dei grandi buchi neri della memoria pubblica. Per queste sue scrupolose ricerche e per il fatto di averle sapute divulgare al pubblico, per anni è stato attaccato brutalmente dalla destra, portato in tribunale, considerato un “traditore”, un “malefico demolitore del passato nazionale”.

“In uno stato che non ha mai fatto i conti con il suo passato scomodo, ivi compreso quello coloniale, nella cui toponomastica sono presenti in tutte le città nomi che fanno riferimento alle nostre imprese di colonizzatori, come Piazza Adua, Via Amba Alagi, Corso Dogali, via Tripoli  Piazza Asmara, dove si voleva lo scorso anno a Roma chiamare una fermata della metro “Ambaradan”, luogo di due stragi compiute dagli Italiani in Etiopia -una di civili, l’altra di partigiani- non stupisce che Del Boca sia stato osteggiato”, afferma in apertura di convegno Paolo Pezzino, Presidente dell’Istituto nazionale Ferruccio Parri.

“Il tema della violenza, portato alla luce da Del Boca è centrale: non solo quella delle stragi coloniali, ma anche quella, sistemica, della guerra di aggressione in suolo africano”, afferma Massimo Zaccaria, storico dell’Università di Pavia.

Il convegno abbraccia vari aspetti del colonialismo italiano, nell’arte, nella letteratura, nell’architettura, nella memoria collettiva, con una particolare attenzione alle pratiche di state building, e toccando problematiche attuali.

Anna Antonini, responsabile dell’Archivio del MUDEC, ripercorre la storia degli oggetti esposti in quel museo nella sezione dedicata all’Africa. Transitati dal fascista “Museo della guerra”, al “Museo del Risorgimento” nel 1950, poi al “Museo dell’arte contemporanea”, sono approdati al MUDEC nel 2019, dove è stata finalmente costituita una loro “biografia”. Sono prodotti fra fine ‘800 e prima metà del ‘900, prevalentemente frutto di donazioni di alti ufficiali del Regio Esercito italiano al museo della guerra. Sono soprattutto armi e simboli religiosi del “nemico” pericoloso e non cristiano. Ma ci sono anche alcuni oggetti raccolti da un concorso propagandistico di epoca fascista per le scuole elementari: gli studenti dovevano portare prodotti ed oggetti coloniali che trovavano nelle loro case (Del Boca ha conteggiato che ogni Italiano aveva in casa circa dieci oggetti coloniali).

Ciò apre la riflessione sulla propaganda coloniale, uno dei mezzi della costruzione degli Italiani come colonialisti in uno stato nazionale che a fine ‘800 si è appena formato.

Ne tratta Valeria Deplano che insegna all’Università di Cagliari. “Hanno iniziato i liberali, si pensi all’erezione dell’obelisco nel 1887 davanti alla stazione Termini di Roma (non a caso ancora la piazza antistante si chiama “Piazza dei Cinquecento”) per commemorare i caduti nella battaglia coloniale di Dogali. Poi, ad inizio ‘900, i liberali presentano le colonie come sbocco per una popolazione di migranti e la Libia come la terra promessa (si pensi a La grande proletaria si è mossa di Pascoli), raggiungendo tutte le fasce della popolazione, anche i contadini poveri del Meridione. E poi monumentalizzano le battaglie, aprono musei e allestiscono mostre coloniali”. La propaganda viene -ovviamente- implementata dal regime fascista, che nel ’26 istituisce la “Giornata coloniale” e usa anche nuovi strumenti mediatici, oltre che giornali, canzoni, rendendo “l’Africa per gli Italiani come il West per gli Americani: il mito”, per usare le parole di Del Boca. Non ultimo elemento mitico quello del corpo della donna africana, venere nera fra l’esotico e l’erotico, come sottolinea Emanuele Ertola dell’Università di Pavia.

Il mito del buon colonizzatore, che ha radici nell’età liberale e fascista, permane anche nell’età repubblicana.  Di come l’Italia dopo il 1945 ha riadattato, modificato e riutilizzato lo stereotipo dell’italiano buon colonizzatore ha trattato Alessandro Pes, docente dell’Università di Cagliari. “La retorica coloniale repubblicana serviva per ottenere l’amministrazione fiduciaria sulle colonie perdute con la Seconda guerra mondiale”, afferma il professore, che cita a mo’ di esempio un discorso di Ivanoe Bonomi che si augura che l’Italia continui quell’operazione civile nelle ex colonie, “perché il mondo sa che siamo dei pacifici coloni che vanno a portare lavoro”. Un tentativo di cambio di paradigma si ha con il Presidente della Repubblica Oscar Luigi Scalfaro che ritorna sul passato coloniale in interventi pubblici in Egitto e in Eritrea. Nel primo, al Cairo nel 1996, Scalfaro si colloca ancora sulla scia autoassolutoria del passato coloniale, anche se timidamente inizia a prenderne le distanze. Pur riconoscendo che il mondo cosiddetto civile abbia usato l’Africa soltanto per sfruttarla, afferma che gli Italiani, nonostante abbiano fatto degli errori e scritto brutte pagine di storia, non sono mai stati sfruttatori: “i colonizzatori italiani hanno portato grande ricchezza umana”. Nel secondo, l’anno successivo, in Eritrea, in quello stesso palazzo dove Graziani aveva agito come viceré, critica la politica coloniale, mettendo in luce la disuguaglianza fra Italiani ed Eritrei e ponendo in risalto la “costrizione” di questi ultimi. Queste parole sono di rottura rispetto allo stereotipo, sono un primo tentativo di superare l’idea di colonialismo “speciale” italiano -bonario e umano-, meritevole di essere ricordato non per le stragi, ma per le strade e i ponti costruiti. Ma molto c’è ancora da fare, di fronte a una “mancata Norimberga africana”. “Gli stereotipi coloniali tornano, ad esempio, nei discorsi, ormai sclerotizzati, dei politici nei confronti dei migranti, che svelano un rimosso e sgretolano l’illusione che l’Europa sia immune dagli orrori del passato coloniale”, osserva Gaia Giuliani, ricercatrice presso il Centro de Estudios Sociais dell’Università di Coimbra.

E allora, oggi, cosa fare? Cosa fare, ad esempio, dei resti/ruderi coloniali, si chiede Flaminia Bertolini, dell’Istituto di Scienze del Patrimonio Culturale. Non possiamo contare sulla fortuna che abbiamo avuto per l’obelisco di Axum, trafugato, su ordine di Mussolini, dalla città sacra africana nel 1937 e che avrebbe dovuto esserle restituito in base agli accordi del 1947. Da allora era divenuto oggetto di contesa tra il governo italiano ed etiope, finché un fulmine, nella notte del 28 maggio 2002, ha provvidenzialmente posto fine alla lite spezzando l’obelisco per sempre. Poiché restaurarlo sarebbe costato troppo, lo Stato italiano lo ha finalmente restituito a pezzi fra il 2005 e il 2008.

E come continuare i pioneristici studi di del Boca? “Studiare e non negare” risponde la Cristina Lombardi-Diop della Loyola University di Chicago “non negoziare la memoria coloniale, perché, altrimenti, alla violenza agita in passato si aggiunge la violenza della negazione”.

Cosa direbbe Del Boca di questa nostalgia delle colonie, di questo revanscismo di destra, di questo sovvertimento di valori, si chiede in chiusura di convegno Nicola Labanca dell’Università di Siena.

“In questo contesto culturale nuovo, bisogna rileggere l’opera di Angelo Del Boca, esaminarla, meditarla” continua Labanca, che sul nostro passato coloniale ha scritto vari volumi di grande rilevanza storiografica.

E proprio in questo contesto politico, sono purtroppo certa che la proposta di Del Boca di istituire “una Giornata della Memoria per i 500 mila africani uccisi in Libia, Etiopia, Somalia dai governi Crispi, Giolitti e Mussolini, sacrificati sull’altare del prestigio nazionale, 500 mila africani senza nome e senza volto, uccisi due volte” resterà inevasa.

 

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