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Chiapas, i primi 30 anni dello zapatismo

La grande festa nel caracol, una nuova struttura amministrativa per rompere l’assedio criminale. Un consiglio di lettura per capire la parabola dell’EZLN

Una dimostrazione di forza giovanile, una parata militare al ritmo di Panteón Rococo e Los Ángeles Azules, una moltitudine di presenze zapatiste, nazionali e internazionali e un messaggio forte, così il quotidiano messicano La Jornada ha sintetizzato i festeggiamenti nel caracol zapatista di Dolores Hidalgo, nel comune di Ocosingo, in Chiapas, dei trent’anni di rivoluzione zapatista.

Il primo gennaio 1994 doveva essere ricordato per l’entrata in vigore del Nafta, l’accordo capestro sul libero commercio nelle Americhe e invece il mondo si svegliò con la notizia dell’insorgenza armata dei popoli maya del Chiapas rappresentati dal sub Comandante Marcos.

L’incondizionata apertura commerciale, economica e delle frontiere che oggi si chiama neoliberismo, fu improvvisamente interrotta da un colpo di realtà che pochi avevano previsto.

L’Esercito Zapatista di Liberazione Nazionale (EZLN) presentò 11 richieste a livello nazionale annunciando che avrebbe marciato su Città del Messico. Non hanno specificato né quando né come, ma lo hanno fatto nel 2001 marciando pacificamente fino allo Zócalo e parlando poi davanti al Congresso dell’Unione.

Armati in modo rudimentale, con i volti coperti da bandane e passamontagna, in un’operazione militare sorprendente per l’ampiezza geografica della loro azione e per le limitazioni logistiche (quasi nessuna radio, nemmeno il telefono), centinaia di insorti e miliziani occuparono ordinatamente quattro città del Chiapas e lessero la loro dichiarazione di guerra, la Prima Dichiarazione della Selva Lacandona.

In quattro lingue maya (tseltal, tsotsil, chol e tojolabal), da regioni remote e inaccessibili l’una all’altra, la maggior parte delle quali prive di elettricità, gli abitanti di centinaia di comunità contadine formarono un’organizzazione unica che permise loro un’operazione militare di tale portata, con una precisione quasi millimetrica, e nei mesi e anni successivi la costruzione della prima autonomia indigena della nostra storia.

In un comunicato del 2004, il Comitato Indigeno Rivoluzionario Clandestino, Comando Generale dell’EZLN, ricapitolò gli eventi, rese noti i nomi dei suoi 46 morti nei combattimenti del 1994 e affermò di aver causato almeno 27 vittime e 40 feriti alle forze federali. La vita di 180 soldati che si erano arresi, tra cui Absalón Castellanos, era stata risparmiata.

I 12 giorni che seguirono la dichiarazione di guerra dell’EZLN non furono forse i 10 giorni di John Reed che cambiarono il mondo, ma cambiarono il Paese e soprattutto i suoi popoli nativi. Non potrà mai più esistere un Messico senza di loro.

La Comune sotto assedio

“La proprietà deve essere del popolo e comune, e il popolo deve governarsi da solo”, ha detto ieri il subcomandante Moisés, portavoce dell’Esercito Zapatista di Liberazione Nazionale (EZLN), capo militare di origine tsetal, organizzatore di pueblos e responsabile di spiegare all’interno e all’esterno le prossime tappe della loro lotta.

“La comune” è stata la formula più frequentemente citata durante i due giorni di celebrazioni. Per spiegarla sono stati dedicati spettacoli teatrali, canti, danze e poesie corali. Un clamoroso “Siamo soli, come lo eravamo 30 anni fa”, ha reso conto della realtà che vivono e sentono, ma ha lasciato aperta la porta al loro insistente appello all’organizzazione. “Invitiamo i fratelli e le sorelle, se vogliono venire, a condividere le nostre idee, per vedere qual è la migliore per la vita”.

Sottolinea il cronista messicano di come sia emerso ancora una volta il paradossale spirito di pace di un esercito che ha imbracciato le armi per la libertà, la democrazia e la giustizia. “Non abbiamo bisogno di uccidere i soldati e i cattivi governi, ma se vengono, ci difenderemo”, ha chiarito Moisés, in una manifestazione in cui non c’era una sola arma, anche se c’erano migliaia di uomini in uniforme con pantaloni verdi e camicie marroni, l’abbigliamento della milizia zapatista.

Alle 22.30 dell’ultimo giorno dell’anno è iniziata la commemorazione del 30° anniversario della rivolta. Dopo un’insolita, gioiosa e festosa sfilata di migliaia di miliziani e donne zapatiste appartenenti a una generazione nata sicuramente 10 anni dopo la rivolta, il Subcomandante Moisés ha iniziato il suo messaggio politico a Tseltal, parlando innanzitutto alla massiccia concentrazione di basi d’appoggio che si è trasferita al Caracol de Dolores Hidalgo, creato su terre recuperate e inaugurato solo tre anni fa.

La memoria degli assenti

Una fila di sedie vuote è stata posizionata davanti al palco. “Gli assenti”, recitava il cartello che le presiedeva. “Gli scomparsi non sono qui. Non ci sono prigionieri politici. Gli assassinati non sono qui. Non ci sono i giovani uomini e donne che sono stati assassinati. I bambini assassinati non sono qui. Non sono i nostri trisavoli, quelli che hanno combattuto più di 500 anni fa, ma nemmeno i nostri compagni caduti, che hanno fatto il loro dovere”, ha detto il Subcomandante Moisés, che 30 anni fa era conosciuto come capitano, poi promosso a tenente colonnello e infine occupa il comando principale all’interno della struttura militare dell’EZLN.

Il discorso finale è stato preceduto da un lungo programma culturale in cui i bambini e i giovani delle comunità ribelli hanno rievocato la storia della loro autonomia a tappe e l’iniziativa a cui stanno già lavorando: “Tierra Común. Tierra de Nadie”. In questa occasione non c’è stato un comunicato scritto, né la presenza del capitano Marcos, che con il grado di Subcomandante è stato colui che trent’anni fa, e per un lungo periodo, si è occupato di spiegare la parola dei popoli al resto del mondo, riuscendo con la propria narrazione a trasmettere non solo le loro ragioni e i loro dolori, ma anche un nuovo modo di fare politica che non percorre la strada della presa del potere, ma quella dell’organizzazione.

“Compagni, compagni e compagne, siamo impegnati ora. Siamo soli, come lo eravamo 30 anni fa. Perché finora abbiamo scoperto il nuovo cammino che percorreremo da soli: il comune. Abbiamo ancora bisogno che i nostri compañeros e compañeras del Congresso Nazionale Indigeno e il popolo messicano ci mostrino se sono d’accordo con noi”, ha concluso il portavoce zapatista, e subito dopo è iniziata la danza, che è durata fino alle prime ore del primo giorno dell’anno.

30 anni dopo, le comunità zapatiste si trovano ad affrontare non solo la minaccia delle forze armate dello Stato e del paramilitarismo, ma anche il crescente controllo territoriale del crimine organizzato e le lotte tra cartelli che hanno afflitto il territorio del Chiapas, soprattutto negli ultimi mesi. L’attuale emergenza istituzionale del Chiapas non dovrebbe sorprendere nessuno, poiché negli ultimi anni l’EZLN aveva avvertito con insistenza dell’avanzata dei gruppi criminali nel suo territorio.

I nuovi governi locali contro narcos e paramilitari

Questa preoccupante escalation di violenza macrocriminale ha dato origine ai cambiamenti recentemente annunciati dall’EZLN in merito alla modifica delle sue strutture civili, con la scomparsa del Marez e delle Giunte di Buon Governo, con il trasferimento dei poteri ai governi autonomi locali. Questi cambiamenti, come annunciato nei loro comunicati, non riguardano la struttura dell’autonomia zapatista, ma sono misure volte a difendere meglio i loro popoli e le loro comunità di fronte a una violenza che ogni giorno registra sparatorie, sequestri, reclutamento forzato, estorsioni, blocchi, tra le altre espressioni.

Era il 10 novembre scorso quando il movimento zapatista ha annunciato la chiusura dei suoi 16 “caracoles” in Chiapas, una sorta di municipi autonomi governati da usi e costumi ancestrali.

In un comunicato, l’Esercito Zapatista di Liberazione Nazionale (EZLN) ha avvertito che le circostanze prevalenti in Chiapas, dove prevale il “caos completo”, con “presidenze municipali occupate da quelli che chiamiamo ‘sicari legali’ o ‘criminalità disorganizzata’”, hanno reso necessaria la soppressione dei comuni autonomi”.

“Ci sono blocchi, aggressioni, sequestri, estorsioni, reclutamento forzato, sparatorie”, ha dichiarato il subcomandante Moisés, nel testo che ha firmato a nome dell’EZLN.

L’organizzazione ribelle ha attribuito il quadro al “clientelismo del governo statale”, sotto il controllo del Movimento di Rigenerazione Nazionale (Morena), a cui appartiene il presidente Andrés Manuel López Obrador, e “alla disputa per i posti in corso”.

“Non sono proposte politiche quelle che si stanno affrontando, ma società criminali”; ha aggiunto il testo, che avverte che “tutte le posizioni, le rappresentazioni e gli accordi” sotto il sigillo della Municipalità Autonoma Ribelle Zapatista “non sono validi a partire da questo momento”.

Queste forme di organizzazione comunitaria hanno conferito a una regione del nord-est del Chiapas una certa indipendenza e hanno permesso di creare modelli organizzativi al di fuori del controllo statale.

Moises ha indicato che le principali città di influenza dell’EZLN come San Cristóbal de las Casas, Comitán, Las Margaritas e Palenque “sono nelle mani di uno dei cartelli criminali disorganizzati e in disputa con un altro”, in riferimento alla lotta tra il Cartello di Sinaloa e il Cartello di Jalisco – Nuova Generazione.

“Questo è confermato dal cosiddetto settore alberghiero, turistico, della ristorazione e dei servizi. Coloro che lavorano in questi luoghi lo sanno e non hanno denunciato perché sono minacciati e, inoltre, sanno che qualsiasi petizione è inutile, perché sono le autorità statali e municipali a commettere i crimini”, ha detto.

Secondo Moisés, nelle comunità rurali del Chiapas “il problema è ancora più grave” e “lo gridano coloro che vivono in tutte le regioni” dello Stato, “in particolare lungo il confine con il Guatemala”.

Zapatismo oltre il Chiapas

Ripercorrere i 30 anni di storia trascorsi dalla rivolta dell’EZLN è tutt’altro che semplice. Trent’anni in cui la portata della resistenza, il tono della sua narrazione e il peso delle sue azioni hanno subito diverse modulazioni. Ciò che non è cambiato in questi 30 anni di esistenza è la rilevanza di una lotta per il pieno riconoscimento dei diritti, dell’autonomia e della dignità dei popoli. La sua storia comprende l’insurrezione armata a sorpresa del 1994 e la presa di cinque capoluoghi municipali del Chiapas, le mediazioni con il governo, la fondazione dei Comuni autonomi ribelli zapatisti (Marez), la creazione del Congresso Nazionale Indigeno, gli Accordi di San Andres, le molteplici dichiarazioni della Selva Lacandona, la creazione dei caracoles zapatisti e delle Giunte di Buon Governo, l’impulso dell’Altra Campagna nel 2006; i potenti discorsi e comunicati pubblicati nelle loro reti, i festival d’arte, gli incontri internazionali di donne luchadoras, la creazione del Consiglio indigeno di governo e la pre-candidatura indipendente di Marichuy nel 2018 e la Gira por la Vida in Europa, tra tante altre azioni che hanno indicato orizzonti di speranza, soprattutto nell’agenda dei diritti umani e nelle lotte e resistenze dei popoli indigeni su scala nazionale e globale.

Trent’anni dopo c’è da riflettere su cosa spinge ancora oggi un gruppo di attivisti valenciani a fare un viaggio vorticoso nel sud-est messicano per celebrare il 30° anniversario dell’inizio della loro insurrezione insieme agli zapatisti? Quali sono le ragioni per cui 90 delegati indigeni provenienti da diverse parti del Messico viaggiano in carovana per stare con i loro fratelli e sorelle? Perché studenti, attivisti, lavoratori, cercatori, artisti plastici, cineasti, ballerini, rocker e gente di teatro si sentono convocati?

Le risposte sono molteplici e possono essere analizzate a partire dalle lotte a cui appartengono e dal riflesso che trovano nello zapatismo trentennale o nelle guerre che inondano il mondo; nella necessità di organizzarsi per affrontare le proprie disgrazie, nella consapevolezza del disastro globale e dell’impossibilità di non muoversi.

I video realizzati dall’EZLN continuano a parlare anche a chi non era ancora nato, a volte non lo erano nemmeno i genitori, quando i loro nonni decisero di prendere le armi, di conquistare militarmente sette capitali municipali, dichiarare guerra allo Stato messicano e dire Ya Basta, la frase emblematica del movimento che continua ad attraversare le frontiere.

Spiega Raúl Zibechi: «Il fatto che lo zapatismo si rivolgesse ai gruppi più diversi della società, ma soprattutto alla gioventù urbana ribelle (gay, lesbiche, precari e disoccupati) e non utilizzasse concetti tradizionali della sinistra come quelli di “proletariato”, “lotta di classe” e “presa del potere”, era estremamente attraente per i settori che erano già stanchi del linguaggio monotono delle sinistre». E’ una traccia interessante ma forse troppo ansiosa di liquidare l’intera parabola del marxismo appiattendola su capitoli sicuramente meno esaltanti per le sorti delle classi oppresse, come lo stalinismo e la socialdemocrazia. E soprattutto non sembra che renda merito alla contestualizzazione dell’esperienza di questa rivolta. Tuttavia è vero che l’influenza dello zapatismo, soprattutto in America Latina, può essere rilevata ai due livelli che indica Zibechi: «uno più diretto, legato ai militanti più attivi e formati nei cosiddetti nuovi movimenti sociali – come i piqueteros argentini, i settori dell’educazione popolare, i giovani critici e artisti – e, in secondo luogo, in modo più indiretto e trasversale nei movimenti dei popoli oppressi, in particolare degli indigeni e degli afrodiscendenti».

La possibilità di creare un contropotere, l’autonomia e l’autogestione, è sicuramente la lezione zapatista che più ha attratto, qui da noi, settori militanti di matrice operaista alle prese con la fine della traiettoria storica dell’autonomia operaia e la suggestione zapatista è stata una degli ingredienti del movimento dei movimenti influenzando soprattutto le tute bianche e la loro metamorfosi nella stagione breve della disobbedienza. Il riflusso ha lasciato qui e lì tracce di quella stagione che faticano a seguire le piste di una convergenza/insorgenza quanto mai necessaria.

Trent’anni dopo l’esperienza zapatista resta un’utopia che ha preso una concatenazione di forme concrete capace di arrivare fino ad oggi.

Un romanzo storico per rileggere l’utopia concretizzata

Una delle possibilità di seguirne le tracce può risiedere nella narrazione romanzesca (ovviamente esiste una bibliografia rigorosa e multiforme) per via della capacità intrinseca della letteratura di effettuare “assalti laterali”, esplorando tra le righe della concatenazione dei fatti e dei documenti ufficiali con un cui un soggetto collettivo si manifesta.

Alla vigilia di questo trentennale è uscito I Pirati della Selva, romanzo storico di Mario Balsamo edito da Redstarpress (postfazione di Alfio Nicotra) e dedicato a questa “utopia dei dimenticati che escono dall’ombra e dall’oppressione, e lo fa superando i confini messicani, proprio seguendo le orme del Pirata Marcos, delle sue avvincenti narrazioni universali e delle straordinarie imprese del popolo che lo comanda”.

Nel romanzo, la storia di come si arrivò alla rivolta si contamina con i dialoghi immaginari  tra persone esistenti e personaggi letterari, da Emiliano Zapata al vescovo Samuel Ruiz, dallo sciamano indigeno Antonio a Don Chisciotte della Mancia, sulla scia della potente capacità comunicativa di Marcos, per restituire la rilevanza e l’attualità delle lotte dei soggetti che hanno dato vita alla rivolta – i popoli indigeni, le mujeres – e delle loro rivendicazioni, la giustizia ambientale e climatica, l’autogoverno.

 

 

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