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G8 2001, uccisero e torturarono per sequestrare la democrazia

Il G8 del 2001 non decise nulla perché era solo un club ma servì al sequestro globale della democrazia. Intervista con Monica Di Sisto [Massimo Lauria e Checchino Antonini]

Ma che diamine ha deciso quel G8 del 2001, oltre a controfirmare la condanna a morte per un ragazzo che provò a brandire un estintore dopo aver visto una pistola puntata contro di lui da un carabiniere? Esecuzione immediata, nessun processo avrebbe mai chiarito, nessuna inchiesta parlamentare avrebbe mai approfondito. Alle 17,27 di quel 20 luglio 2001, mentre Carlo emetteva gli ultimi respiri, gli 8 “grandi” più Prodi, allora a capo dell’Ue, ascoltavano serafici il premier giapponese dell’epoca che suonava il “cannone” di Paganini, il prezioso violino conservato a Tursi e fatto pervenire apposta a Palazzo Ducale. La carogna risale ascoltando l’indignazione annunciata da radio tv e giornali mainstream ormai sicuri di non sortire effetto alcuno se non migliorare i rispettivi share. «A me fa sorridere sentire anche alcuni economisti, famosi, della scena italiana che dicono “quei ragazzi avevano ragione”, noi non eravamo ragazzi: eravamo organizzazioni economisti, sindacati, la mia organizzazione per esempio fa questo, fa un osservatorio dei negoziati commerciali e climatici, noi scoviamo documenti, ce li studiamo, cerchiamo di capire qual è l’impatto, andiamo dai nostri governi, gli diciamo questo funziona, questo non funziona: è quello che abbiamo imparato a fare a Seattle, che abbiamo continuato a fare a Genova e anche dopo».

E’ la voce di Monica Di Sisto, attivista e vicepresidente di Fairwatch, l’osservatorio sul commercio e per l’economia solidale, che ci guida nelle formalità e nelle pratiche di quel tipo di evento.

qui il servizio di Rsi con interviste a Monica Di Sisto e Valerio Callieri

Ma, insomma, cosa c’era di tanto urgente da proteggere sospendendo i diritti umani? «Esiste una dichiarazione finale, perché come in tutti i processi G8 il tutto era essenzialmente affidato alla tradizione orale, quindi al passaggio di ragionamenti tra gli sherpa e i ministri. Chiaramente la situazione di tensione che ci fu in quei giorni portò a una particolare semplificazione della vicenda. Loro si limitarono a prendere atto della complessità della globalizzazione, che c’è in qualche punto accennata, ma visto che era comunque il G8 di Berlusconi, quindi del periodo in cui ancora la globalizzazione faceva dei “più” davanti al PIL, chiaramente il documento finale testimonia quel tipo di ottimismo e non ha nessun seme di criticità che noi già all’epoca vedevamo. Ad esempio nelle prime delocalizzazioni industriali che si portavano appresso i lavori poveri, nei cosiddetti paesi in via di sviluppo e della fine dei lavori da noi di tipo industriale. In Liguria e a Genova questa cosa era sentitissima perché come a Seattle Genova aveva il comparto siderurgico oltre che portuale. Quindi il cambiamento della struttura industriale a causa della globalizzazione toccava la pelle delle persone».

 

Genova, 2021: l’arrivo a Palazzo Ducale della Marcia por la vida del 18 luglio

«Una storia poco raccontata della storia di Genova è che quella massa diversa, internazionale, intergenerazionale, che l’ha popolata nei giorni di luglio di vent’anni fa, non era una massa indistinta o omologa. La maggior parte delle persone che sono arrivate a Genova sono arrivate con una propria lettura della traiettoria della globalizzazione ma anche già con una propria pratica: c’erano i gruppi di acquisto, c’erano per esempio i collettivi, i comitati di quartiere che si riprendevano gli spazi abbandonati e ne facevano dei centri culturali, c’erano i primi costituzionalisti con cui si parlava, i grandi economisti del cosiddetto Sud del mondo che cominciavano a dire guardate che l’economia vista dalle colonie ha una sua traiettoria e la globalizzazione, se non è governata, avrà la stessa traiettoria, che è una traiettoria di impoverimento dei paesi fonti di materie prime e soprattutto di impoverimento del lavoro, la classe media globale sarà una classe media povera. Poi c’erano gli operai, per esempio, gli operai americani o europei quelli che avevano conosciuto la fine del lavoro identitario, la fuga della fabbrica dell’automobile nel sud est asiatico, con le sue filiere, lasciando decine di centinaia di migliaia di persone senza lavoro, senza sanità e i loro figli senza università. Tutto questo mondo si incontra e comincia ad attraversare contestando, ma anche dall’interno, cercando di intervenire nei processi decisionali, i grandi vertici della finanza globale, Fmi, il primo world economic forum a Ginevra, queste contestazioni non sono contestazioni che vengono da un malessere giovanile, come spesso è stato anche dipinto, erano in realtà il portato di una conoscenza, per la prima volta abbastanza chiara, delle agende politiche di quegli di quei luoghi che, peraltro non erano le Nazioni unite, erano club di paesi. Erano istituzioni create esattamente al di fuori dalle Nazioni unite create proprio per facilitare la governance economica: Fmi, Bm, Wto non fanno parte del sistema delle Nazioni unite lavorano per patti tra paesi.

«Abbiamo visto in questi anni Grandi della Terra piantare alberelli, anche quest’anno per il G20 qua a Roma ci sarà uno spazio sull’Appia Antica dove ogni Grande pianterà il suo alberello, noi non vogliamo gli alberelli vogliamo le regole per fare pace col pianeta. Noi non siamo quelli delle buone pratiche, siamo quelli delle buone regole, solo che finché fai i lavoretti delle suore ti ascoltano, quando poi dici “guarda che devi comprimere alcuni interessi privati per espandere lo spazio pubblico, per far sì che lo spazio pubblico sia più gestibile e vivibile per tutti, lì cominciano ad esserci i problemi e la difficoltà».

Il Wto è stato creato da Clinton dopo la caduta del Muro di Berlino con l’idea che il mondo si sarebbe riunito politicamente grazie ai veicoli del commercio. «Noi, invece, dicevamo che è un problema se il mondo si riunisce per il commercio e non per la politica. E oggi abbiamo avuto la prova, perché noi, per esempio abbiamo avuto una pandemia che ha viaggiato lungo le filiere lunghe della globalizzazione, che però sono state le prime ad essere state terremotate dalla pandemia perché si sono paralizzate … ecco noi quella cosa l’avevamo prevista perché non eravamo i “ragazzi di Genova” e nemmeno i “ragazzi di Seattle”, perché da quell’avamposto delle prime crisi industriali, la lotta contro i brevetti sui farmaci e la rivendicazione della sovranità alimentare, l’impatto sulle comunità contadine c’era un’intuizione, una lungimiranza, e i numeri, oggi, ce lo confermano».

«All’epoca lavoravo alla Camera e facevo dentro e fuori, come molti di noi, perché come militante – facevo parte della rete Lilliput – provammo a portare dentro la preoccupazione di quello che succedeva fuori, l’allarme ci fu anche tra gli sherpa per quello che all’epoca chiamarono un eccesso correttivo di una gestione della piazza. Loro di aspettavano di venire a fare una vacanza essenzialmente in Italia, col sole, il mare, Portofino, quello era un po’ l’immaginario del delegato medio del G8 di Genova. Invece si sono trovati in mezzo al delirio. Ricordo che c’era parecchia preoccupazione anche tra i funzionari delle diverse delegazioni e dei diversi governi. Gli spagnoli, i francesi ci dicevano: “Ci dicono i sindacati che c’è un sacco di gente picchiata. Ma è vero?”. Era tutto molto ovattato». All’epoca conquistò un profilo di grande visibilità il ministero dell’Interno: «Una cosa piuttosto inusuale. In questo momento ad esempio a gestire il G20 ci sono Mef e Mise», ricorda Di Sisto, ancora oggi impegnata con la Società della Cura anche nell’organizzazione delle scadenze genovesi per il ventennale. «Considera che venivamo da una stagione di mazzate. Genova arrivava dopo Praga, che arrivava dopo Seattle, dopo Goteborg, Napoli… tutto un rosario di mazzate. Quindi loro erano arrivati preparati per questo motivo». Gianni De Gennaro, il potentissmo capo della polizia, gradito agli americani, era stato designato come coordinatore internazionale. «Questo avviene sempre. Nel senso che la funzione della sicurezza è accentrata. C’è la responsabilità di tutte le delegazioni dei paesi ospiti. Il punto è che a Genova questa cosa era esasperata. In parte era giustificata, ma fino a un certo punto. All’epoca, alla Camera, giravano un sacco di veline nei mesi precedenti al G8, con su scritto che ci sarebbe stato l’inferno, i sacchi di sangue… tutte quelle gran cazzate. Ma questo ha contribuito a costruire questa atmosfera molto pesante, che però i delegati appena arrivati non avevano percepito. Quando poi in tv hanno cominciato a vedere botte ecc, hanno capito pure loro».

Eppure il G8 non è un’istituzione, ma un club di Paesi e quindi firma documenti di buoni propositi, mentre i trattati sono vincolanti. Da Genova in poi che cosa è successo? «È successo innanzitutto che la globalizzazione ha cominciato a perdere e quindi i trattati hanno cominciato ad essere rafforzati. A che serve il trattato? Il trattato serve per darsi delle regole che accelerano l’estrazione e visto che dazi e dogane li ha ammazzati già il GATT (General Agreement in Tariffs and Trade) a suo tempo – il 40% delle tasse e delle dogane era caduto dopo il GATT – quello adesso che serve è di omologare le regole e far sì che i prodotti siano sempre più simili gli uni agli altri in modo che quando si passa attraverso i confini siano tutti uguali. Oppure che io posso delocalizzare le diverse produzioni. A quello servono i trattati. Perché li portano fuori dagli Stati? Perché invece ogni Stato ha voglia di gestire le cose secondo le proprie costituzioni, le democrazie per esempio, e quindi se per esempio ti dico che con un trattato di liberalizzazione finanziaria tu non puoi più vincolare gli investimenti di un investitore privato a un numero di anni di permanenza o a un tot di assunti, è chiaro che a livello di Stato reagisco. Se invece l’Unione europea lo assume per me, posso dire “ce lo chiede l’Europa”».

Monica Di Sisto fa un passo indietro, a Seattle. «Chiaramente Seattle 1999 è il momento in cui il WTO è in crisi, perché un organismo che si allarga e quindi allarga un tavolo alla pari a un numero di paesi con interessi sempre più contrastanti, va in difficoltà. Nel momento in cui Stati Uniti ed Europa dicono “vogliamo i tuoi investimenti”, com’è successo in quegli anni, India e Brasile gli fanno il dito e gli dicono allora io voglio la tua agricoltura. L’Unione europea dice no e allora si blocca tutto. Quindi la tensione vera che c’è stata in quegli anni è stata una progressiva paralisi del WTO e un intensificarsi, soprattutto da parte di Usa e Ue, di operazioni faccia a faccia. La Cina ha scelto il suo modello, che in questo caso è quello della cooperazione bilaterale. Quindi va, offre investimenti e vincola non con trattati ma con contratti commerciali che sono confacenti al diritto cinese… se li vuoi li accetti, se non li vuoi non prendi i soldi… e se l’è scontata così diciamo. Mentre tutti gli altri hanno cercato da un lato di avere delle agende bilaterali, dall’altro di cavarsela con operazioni dentro la WTO, con scarso risultato. E questo, chiaramente, ha sequestrato un grosso pezzo di democrazia, perché temi come l’acqua, come gli investimenti, come l’agricoltura, sono stati sempre più sottratti al controllo democratico. Guarda per esempio le ratifiche dei trattati ecc, che sono praticamente fondamentali, ma il Parlamento non li può emendare, può solo dire sì o no».

Non può leggere le clausole segrete: «Considera che il TTIP lo lessero solo perché facemmo l’inferno. Gli avevamo fatto fare gli scioperi dentro il parlamento europeo. Mentre tutti gli altri trattati non li hanno letti e continuano a non leggerli. Io penso che il segno degli anni successivi a Genova sia stato il sequestro della democrazia per via commerciale ed economico».

Vent’anni dopo un grosso pezzo di lavoro è quello che rimane del lavoro agricolo. «Il movimento contadino, per quanto faticosamente, si è installato dentro la FAO. E quindi sta continuando a fare le sue battaglie contro il land grabbing e contro l’industrializzazione dell’agricoltura. E quello per fortuna è un posto dove annualmente ci sono vertici e dove annualmente lavorano per tenere soprattutto dal punto di vista della invadenza dei brevetti e quindi dell’invadenza delle multinazionali – spiega Di Sisto – poi l’altro grosso pezzo è quello sugli investimenti che è pure quello che veniva dalla Tobin tax e dopo è diventato ‘tassiamo le multinazionali’, ed è un pezzo importante perché chiaramente ci stanno i soldi che vanno recuperati. Penso che vada ripensato il sistema di tassazione globale, anche le quantità e il tipo delle merci che noi pensiamo che debbano essere prodotte e circolare. Siamo in una crisi di sovrapproduzione globale e ci vorrebbe un ragionamento su un tavolo multilaterale però dovrebbe essere un tavolo democratico, non solo un club di Paesi. Noi avremmo questo fondo PNRR che arriva senza essere stato deciso democraticamente.

E oggi? «Siamo ancora giardinieri, sappiamo dove sono le radici, prima che ci siano i fiori – conclude Di Sisto – perché i movimenti non nascono sotto i cavoli, come tante altre cose… nascono dalla pazienza, dal dono e dalla forza di tante e tanti che di concedono, si mettono a lavorare insieme per accompagnare i processi, per accompagnare nuove forze, nuove organizzazioni, nuove realtà, nuove speranze e anche per leggere nuove cose come la pandemia: dopo tre giorni dal primo lockdown in Europa, alla Wto arrivò una lettera firmata da 400 organizzazioni di tutto il mondo, tutte le centrali sindacali, tutte le organizzazioni della società civile, le grandi Ong, e le grandi realtà ambientaliste e alcune centrali cooperative che chiedevano di fermare i negoziati e di aprire un tavolo di osservazione della crisi, punto di caduta di una crisi che durava da molti anni. Quella stessa agenda è stata presentata anche al nostro governo, diciamo che l’interlocuzione non è stata così interessante, i suoi esiti nemmeno. Però per chi voleva ascoltare c’era la possibilità di come dire assumere delle cose da fare subito, come, per esempio, la sospensione, la deroga della protezione brevettuale per la produzione dei vaccini, che ancora non c’erano. Ma anche per la produzione di farmaci che potessero aiutare la gestione della malattia e delle malattie respiratorie perché le nostre organizzazioni già parlavano di varianti avendo avuto sempre a che fare con malattie pandemiche in questi anni. La pandemia ha spaventato molto però siamo rimasti insieme. In Italia abbiamo promosso un’esperienza che si chiama Società della Cura che vede insieme 1400 circa realtà per cercare di dare una lettura complessiva al modello di sviluppo e una risposta complessiva alla crisi di questo modello di sviluppo. Siamo qui e continueremo a farlo anche il giorno due dopo il ventennale».

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