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G7, la settimana di passione di Torino

Torino, un primo bilancio critico del summit del G7 e delle mobilitazioni che lo hanno contestato

di Franco Turigliatto

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La settimana di passione del G7 a Torino si è conclusa. Cosa resta di questo evento? Non molto dal punto di vista materiale ed obiettivo, ma la necessità di una analisi critica delle dinamiche politiche e sociali in atto.

L’alternativa che non c’era

Il primo elemento da sottolineare è semplice: il movimento operaio, ma anche quelli cosiddetti sociali non hanno saputo o potuto dare la risposta necessaria e di massa a quella che è stata una vera e propria provocazione: un G7 sul lavoro convocato nella città, una volta capitale della classe operaia italiana, martoriata da anni dalle ristrutturazioni industriali, dai licenziamenti e dalla precarietà.

Una Torino che Revelli, in un brillante articolo sul Manifesto, ha definito il “simbolo materiale di una sconfitta del lavoro che viene da lontano”.

Le ragioni sono fin troppo evidenti: i gruppi dirigenti di CGIL CISL e UIL hanno scelto da tempo di collaborare a fondo con le scelte delle classi dominanti, gestendo le ristrutturazioni, favorendo la passività dei lavoratori, nel tentativo illusorio di costruire uno spazio neocorporativo, con l’obiettivo della pura conservazione dell’apparato. E la Fiom – che per anni aveva cercato di tenere aperta la partita – è precipitata infine anch’essa in questo gorgo burocratico negativo arroccandosi in una trincea identitaria in cui condensa le forze dei suoi militanti, partecipando alle tante lotte disperate di resistenza che si manifestano, ma dentro la logica infernale del contratto nazionale di restituzione da lei firmato e del testo unico sulla rappresentanza del gennaio 2014 in un contesto in cui alla Fiat resta comunque fuori dalla porta.

Come vedremo più avanti, le direzioni sindacali sono state ben contente di essere ricevute nelle sale dei potenti, di essere associate nella foto finale di gruppo, senza per altro aver portato con loro nemmeno un vero “cahier di doléance”.

Impossibile che in questo contesto le lavoratrici e i lavoratori fossero in grado di esprimere un movimento di protesta e tanto più di lotta che mettesse sul banco degli accusati i loro persecutori chiusi nella sontuosa reggia di Venaria e nei vasti giardini restaurati.

Già perché il successo maggiore del summit, dopo il suo spostamento dal centro cittadino alla Venaria Reale è stato la scelta del luogo, (definita da La Stampa la star del vertice) voluta dal presidente della Regione Chiamparino (ma anche dalla Sindaca di Torino) che ha tenuto a rimarcare come il commento principale delle delegazioni straniere fosse “wonderful location”. Certo molto meglio degli immensi capannoni dismessi di Mirafiori o delle altre grandi cattedrali Fiat abbandonate.

La natura del vertice

Il vertice è stato quindi in primo luogo una piacevole vacanza per i suoi partecipanti, un incontro per far conoscere, creando un ambiente di lavoro comune, le figure di seconda fila dei governi e delle borghesie. Esponenti politici e media hanno subito capito che non avrebbero potuto costruire una forte impatto propagandistico, la vendita di progetti e prospettive radiose (nessuno più ci crede) e quindi hanno scelto di gestire discretamente l’evento.

Era anche un modo per non buttare troppa benzina sul fuoco delle possibili contestazioni; andava nella direzione voluta dalla giunta comunale 5 Stelle dell’Appendino, in difficoltà dopo le vicende di Piazza San Carlo, ma soprattutto presa in mezzo tra la necessaria gestione e amministrazione degli affari della borghesia sabauda e le aree sociali popolari che le hanno permesso di vincere il ballottaggio contro il PD. E’ una contraddizione in cui si troverà sempre più il M5S con le sue posizioni interclassiste; i fatti sociali gli imporranno delle scelte precise e Di Maio ha già da tempo indicato la rotta.

Da questa scelta politica complessiva (nazionale e locale, condivisa da tutti quelli che contano) ne è discesa anche la scelta della gestione dell’ordine pubblico, di operare cioè solo azioni di contenimento di fronte alle possibili iniziative contestatrici radicali. Questa opzione “ragionevole” è risultata del tutto vincente anche per la limitatezza delle mobilitazioni, per le stesse scelte degli “antagonisti” e naturalmente per l’enorme dispiegamento delle forze repressive. L’ordine sabaudo è stato quindi pienamente garantito.

Fossimo stati venticinque anni fa avremmo assistito a un “Evento sul lavoro” gestito politicamente in forme assai diverse perché ad officiarlo nei dovuti modi e in prima persona, sarebbe stato il monarca vero, non i suoi tirapiedi (modesti parvenu a partire dai ministri italiani), sarebbe stato l’Avvocato, Gianni Agnelli, il “datore di lavoro” per eccellenza e capo indiscusso della borghesia italiana.

Ma quel personaggio e quel mondo non ci sono più, soprattutto non c’è più quella Fiat (con le sue decine e decine di migliaia di lavoratori) che la famiglia Agnelli ha trasferito in altri lidi (con la totale complicità delle istituzioni e dei partiti di destra e di centro sinistra) per garantire i suoi interessi e i cui esponenti si son ben guardati di farsi vedere in questi giorni.

I “risultati” del summit

Le conclusioni del vertice non potevano che essere all’insegna del totale genericismo, delle dichiarazioni vuote e ipocrite come quella del ministro Poletti “adottare un approccio inclusivo al mercato del lavoro con particolare attenzione ai più deboli delle nostre società per assicurare che nessuno sia lasciato indietro”, oppure l’affermazione per cui “l’obiettivo più ambizioso…. è coniugare innovazione tecnologica, lavoro e diritti”. Difficile credere che la sfida che vogliono perseguire i potenti sia quella di “migliorare la qualità della vita”. Forse la loro a scapito del resto dell’umanità. La ministra Fedeli è arrivata a dire che “ la figura dei ricercatori va rivista… devono saper comunicare la ricerca… per farne comprendere l’importanza..” A che cosa pensava? Ai ricercatori come piazzisti televisivi?” Il tutto non è serio.

Ma le parole vuote sono solo il tentativo di mascherare la realtà: non hanno nulla da offrire e neanche da promettere; sanno bene che ogni ragionamento sull’industria 4.O, sulla ricerca, sul lavoro, per la loro classe dominante significa solo una cosa: come assicurarsi lo sfruttamento delle classi lavoratrici, come reggere la concorrenza con le diverse potenze capitaliste del mondo, come asservire e controllare la forza lavoro e come impedire che le classi sfruttate si ribellino.

A questo fine hanno ritenuto di dare vita a un Forum di Coordinamento con i sindacati, cioè di associare ai loro “lavori” i dirigenti sindacali, le burocrazie e gli apparati complici, chiamati a gestire coi padroni le future ristrutturazioni e le massicce riduzioni dei posti di lavoro, in un ruolo di pompieri delle inevitabili resistenze e lotte dei lavoratori, di caposquadra che controlla e divide i lavoratori secondo le necessità dei capitalisti.

Alla Furlan della CISL viene bene questo ruolo, ma forse le iscritte e gli iscritti della CGIL hanno qualcosa da dire e da fare contro la scelta di Camusso e Landini di adeguarsi a questo modello reazionario e corporativo.

Quale sia la realtà del lavoro lo ha ricordato il direttore dell’ILO Guy Ryder: “ il vero dramma è un miliardo di sfruttati con paghe di fame”. Nel mondo ci sono 3 miliardi di lavoratrici e lavoratori, di cui un terzo vive sotto la soglia di povertà; la soglia di povertà è rappresentata da due dollari al giorno. Ma anche gli altri due miliardi non se la passano bene. Se in un continente come l’Europa ci troviamo ancora di fronte una realtà diversa nondimeno salario, occupazione e diritti sono da venti anni via via tirati verso il basso, e per settori ormai ampi di lavoratori il lavoro, anche quello più duro e intenso, non significa più l’uscita dalla povertà. E’ la logica infernale della concorrenza capitalistica e della compressione verso il basso del “costo del lavoro” tanto più forte in mancanza di organizzazioni sindacali degne di questo nome.

Sono i padroni del mondo che hanno costruito questa realtà di sfruttamento; con le scelte delle loro multinazionali e delle loro imprese la perseguono e la riproducono ogni giorno.

Queste semplici considerazioni collimano con la denuncia di Revelli quando descrive una “controparte padronale in pieno delirio di onnipotenza”, e richiamando il trasferimento di ricchezza dai salari ai profitti che “la bilancia sociale è precipitata da una sola parte. E ha eroso le basi di qualunque ragionevole patto. Assai meno convincente è quanto scrive subito dopo: “Di questo dovrebbe ragionare un «vertice sul lavoro»: di come riportare in equilibrio quella bilancia. Di come risarcire il lavoro di quanto gli è stato sottratto negli anni del delirio neo-liberista. Senza questa premessa etico-politica nessuna «innovazione» potrà rivelarsi socialmente positiva, anzi, rischierà di peggiorare il «bilancio sociale».

Spero che questa sia solo una sfida retorica perché appare difficile che i protagonisti delbusiness as usual, attenti solo alla curva dei profitti, possano avere interrogativi etico-politico. Sono avvoltoi senza pietà, sono i nemici delle classi lavoratrici e solo la più dura lotta di classe può sconfiggere il loro delirio di onnipotenza e sfruttamento.

Le mobilitazioni e le loro difficoltà

Nelle settimane antecedenti al G7 a Torino, si è formata una assemblea cittadina per costruire una mobilitazione ampia ed articolata da concludere con un corteo di massa verso la Reggia di Venaria.

Ad egemonizzare questa assemblea in diverse forme, alcune anche discutibili, era il principale centro sociale che ha posto l’asse politico dell’assemblea intorno al tema della ribellione, dell’assedio al castello, della presunta e indefinita unità di una moltitudine di oppressi e sfruttati.

Questa impostazione naturalmente non si poneva e non poteva proporsi una attività che allargasse al massimo il fronte della mobilitazione, che provasse ad agire verso una realtà sociale assai più complessa ed ampia in cui la classe operaia costituisce ancora una componente molto consistente, così come i lavoratori del pubblico impiego e dei servizi.

Per questo era emersa l’ipotesi di costruire una piazza tematica sul lavoro che unisse e rendesse protagonisti i diversi settori della classe lavoratrice, vecchi e nuovi, per il venerdì 29 o il sabato 30 al mattino: questo progetto era sostenuto inizialmente da 4 organizzazioni sindacali di base (Sicobas, CUB, Usb, Confederazione Cobas) e dalla sinistra di opposizione in CGIL, avendo l’appoggio di diverse forze politiche (Rifondazione, Sinistra Anticapitalista, Partito comunista italiano e Federazione anarchica torinese). Era una ottima idea per provare almeno in parte a costruire anche una presenza della classe lavoratrice in quanto tale.

Ma le cose sono andate rapidamente in altro senso e richiedono una rigorosa critica delle scelte delle diverse forze anche se la critica non vuole sminuire per nulla la generosità e l’impegno dei loro militanti impegnati a costruire le iniziative di resistenza in condizioni di estrema difficoltà. Ma proprio per questo sarebbe bene bandire settarismi e scelte di corte vedute.

L’ipotesi della piazza sul lavoro è infatti naufragata sotto la pressione delle aree autonome del movimento che mal la tolleravano perché “fuori dalla loro linea e controllo”, ma anche per alcuni limiti politici e i piccoli interessi di alcuni soggetti sindacali.

Solo con grande difficoltà e una decisa battaglia politica le 4 forze politiche prima richiamate insieme alla CUB e alla sinistra di opposizione in CGIL, (il Sicobas si è tirato indietro all’ultimo momento), grazie a un appello firmato da un centinaio di lavoratrici e lavoratori, sono riuscite a realizzare una manifestazione specifica sul lavoro in Barriera Milano, uno storico quartiere operaio, oggi con forte presenza di lavoratori migranti, il venerdì pomeriggio con la partecipazione di alcune centinaia di manifestanti e una buona interlocuzione con la popolazione residente.

La street parade del giovedì sera con circa 400 persone, ha raggiunto abbastanza i suoi obiettivi di intervenire nei luoghi della movida giovanile; la manifestazione studentesca del venerdì mattina col supporto del Cobas e dell’USB (poche centinaia di giovani) ha invece evidenziato lo stato drammatico esistente nelle scuole (nell’ultimo anno non c’è stato mobilitazione alcuna) ed è stata indirizzata dai suoi promotori nella parte finale verso limitatissime iniziative di “assedio” dei potenti.

La manifestazione del sabato dominata da una folta rappresentanza dei movimenti sociali e degli antagonisti venuti anche dal resto del paese con una presenza molto modesta dei sindacati di base, espressione delle difficoltà obiettive, ma anche dei limiti politici di queste organizzazioni, per le sue dimensioni (poche migliaia) ha messo in luce egualmente le difficoltà della mobilitazione e il respiro corto di chi aveva preso la direzione del “movimento”.

Lo schieramento politico e sindacale che aveva organizzato la manifestazione in barriera di Milano si è presentato unito occupando la seconda parte del corteo con i propri striscioni, le proprie parole d’ordine e una certa modalità di agire politico; ha avuto una presenza organizzativa significativa, tra cui quella di Sinistra Anticapitalista, che molto aveva investito perché si realizzasse questa unità. Per parte sua la nostra organizzazione nelle due settimane antecedenti al vertice ha diffuso migliaia di volantini in molte fabbriche della città e della provincia; ha poi distribuito 3 mila copie di un volantone speciale nel corso delle manifestazioni degli ultimi giorni.

L’assedio ai castelli

I giornali torinesi hanno rilevato a più riprese che le iniziative e gli scontri tra gli “antagonisti” e la polizia, sono stati di lieve entità, che i danni alla città e le scritte sui muri sono stati irrilevanti, quasi un gioco di guardie e ladri, con la scelta delle forze dell’ordine di attivare una “risposta proporzionata” per altro correlata a una “contestazione di rigore ma misurata”, tanto che un giornalista de La Stampa ha scritto che “le azioni hanno ricordato più quelle dei disobbedienti dei primi anni duemila che quelli dell’Autonomia operaia degli anni 70”.

Non è un caso che il Questore abbia telefonato in viva voce ai reparti schierati ancora nella piazza di Venaria in via di esaurimento, per elogiarli della loro piena capacità di controllo della situazione con il solo uso degli idranti e delle bombe lacrimogene, riducendo al minimo le cariche.

E’ un gioco, non solo poco utile per la mobilitazione dei lavoratori e molto discutibile, in ogni caso molto pericoloso perché a giocarlo sono in due e chi detiene il potere può esercitarlo come vuole ed anche cambiarlo in corso d’opera come è avvenuto alcuni anni fa.

E infatti è arrivata subito dopo la repressione con l’arresto di due militanti, uno dei quali un noto attivista e dirigente di Askatasuna volta a colpire questa organizzazione e a ricordare i limiti della “ribellione possibile” e quali siano i veri rapporti di forza. Esprimiamo la nostra piena solidarietà ai compagni arrestati e ne chiediamo l’immediata liberazione.

La pantomina e l’analisi de La Repubblica

La scarsa partecipazione studentesca hanno permesso a Paolo Griseri già giornalista del Manifesto, approdato ormai da anni armi e bagagli a Repubblica di scrivere un articolo titolato “La pantomima dei centri sociali e i risultati del Summit”. Griseri, dopo aver ricordato che ci sono a Torino 70.500 studenti ha contrapposto i 400 che hanno scioperato ai 70.100 che sono rimasti a lezione: “Se 400 persone si aggirano per la città ingaggiando qualche scaramuccia con le forze dell’ordine, questa non è la rivolta degli sfruttati contro i potenti del mondo: è una pantomina ad uso delle telecamere, sperando nella clemenza di qualche tg”.

C’è del vero in questa corrosiva descrizione dei fatti solo che Griseri, dopo aver richiamato “la battaglia di centinaia di milioni di persone che chiedono lavoro e dignità”, vira all’improvviso a destra e si schiera con i potenti rinchiusi a Venaria che ogni giorno calpestano diritti e lavoro. La foglia di fico che usa per questa operazione è l’istituzione di una consultazione permanente sull’occupazione dei capitalisti insieme ai sindacati, quell’organismo cioè del tutto simbolico o -quel che è peggio- che chiama i dirigenti sindacali complici a gestire in prima persona gli effetti perversi della digitalizzazione sui posti di lavoro.

Sogni e ideologie

Per parte sua Info aut ha pubblicato un commento alla giornata del 30 che appare scritto da qualcuno in totale preda ai fumi dell’alcool , come se avesse vissuto su un altro mondo la scorsa settimana:

Il primo dato è quello del terrore che ormai regna tra i governanti su ogni possibile eccedenza che rappresenti, uno spaccato, per quanto minimo, dell’immiserimento che regna in questo paese. E più avanti “Dal corteo degli studenti, alle azioni notturne a sorpresa, dalla street parade al corteo di sabato le mobilitazioni si sono incastrate magicamente nell’obiettivo di mettere in difficoltà l’avversario. Lo diciamo fuor di retorica, l’avevamo promesso e le promesse noi, a differenza di quelli del G7, le manteniamo: siamo stati il loro incubo. Tutte le tattiche possono essere messere a profitto (dalla rappresentazione teatrale allo sfondamento della zona rossa) se c’è l’unità di una strategia”.

Sono affermazioni collocate all’interno di una interpretazione della manifestazione del 30 come elemento prefigurante la ricomposizione dei soggetti oppressi e sfruttati. In piena continuità con le concezioni dell’autonomia si adombra tra le righe ancora una volta la divisione tra un “vecchio” proletariato con le sue forme di rappresentanza politica e sindacale (ormai perso e perdente) e un “nuovo” proletariato che non ha bisogno di rappresentanza ma che nelle dinamiche del conflitto (di piazza e non quello nei luoghi di lavoro) si riconosce e si ricompone.

Non sappiamo se queste letture della manifestazione del 30 servono a tenere alto il morale della truppa e a organizzare e reclutare altri giovani che giustamente non accettano di restare passivi di fronte a coloro che rubano il loro futuro; solo che sono molto lontano dalla realtà, dai rapporti di forza, dalla dimensione, dall’articolazione della classe e dalla sue divisioni; è un sogno; ognuno ha diritto di sognare.

Solo che – ed è stato evidente nel corso delle discussioni della scorsa settimana – se non ci si pone il compito e le modalità con cui parlare a cerchie di lavoratrici e lavoratori più ampie, si resta chiusi in uno spazio mitologico e in un integralismo politico assai distanti dal compito e dalla necessità di ricercare la reale unità delle articolazioni sociali di classe e dal riconoscimento della pluralità delle posizioni politiche e strategiche.

La conclusione è piuttosto amara o forse agrodolce perché una campagna in ogni caso utile è stata fatta: i padroni non hanno potuto utilizzare il G7, date le loro intrinseche contraddizioni, per vendere i loro marci prodotti, ma il movimento di opposizione non è riuscito ad utilizzare queste contraddizioni per allargare il suo fronte, per rafforzarsi realmente, per fare un passo avanti significativo, per coinvolgere realmente quella città operaia impoverita ed impaurita. E’ un dato di fatto che non sminuisce il lavoro e l’impegno dei militanti delle forze sociali politiche e sindacali che hanno operato generosamente in queste settimane con l’auspicio che possano farlo meglio anche riflettendo su difficoltà o limiti.

 

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